«Insegnare in carcere, un dono che mostra come sa amare Dio»

L’esperienza di Claudia, Rossana e Licia, che portano la scuola dietro le sbarre e raccontano di aver compreso il valore infinito di ogni persona. «Siamo qui per condividere, non per giudicare»
May 29, 2025
«Insegnare in carcere, un dono che mostra come sa amare Dio»
IMAGOECONOMICA |
Anche nel pianeta carcere si avvicina la fine dell’anno scolastico. Tempo di pagelle e di bilanci: nel 2022-2023 (ultimi dati disponibili) 19.372 detenuti, di cui 9.002 stranieri, erano iscritti a 1.760 corsi scolastici, e la percentuale delle promozioni è stata del 47,8%. Per alcuni è stato un passo avanti nel percorso di riabilitazione, altri hanno abbandonato gli studi, a volte anche a motivo delle condizioni precarie in cui si fa scuola in questi luoghi. Guardando le cose “dall’altra parte” – quella dei docenti – insegnare in carcere è un’esperienza che costringe a misurarsi con molte carenze di sistema ma che regala molte gratificazioni e spesso lascia un segno indelebile, come è accaduto a tre donne che raccontano il guadagno umano che hanno ricevuto. «Bisnonni, nonni, genitori: vengo da tre generazioni di insegnanti, ma io non volevo seguire le loro orme. Avevo deciso che sarei stata la generazione sabbatica. E poi il carcere non era certo nei miei pensieri, anzi, l’avevo proprio rimosso. È stato l’incontro con le persone detenute che mi ha fatto cambiare idea: prima una supplenza annuale ed ora eccomi qua, al tredicesimo anno di docenza in carcere». Claudia Cianca insegna italiano e storia nella sezione distaccata dell’Istituto professionale Pertini presso la Casa circondariale di Terni, l’impatto con i ristretti è stato per lei qualcosa di scioccante e insieme affascinante: «Il primo giorno ho chiesto a tutti di dire che mestiere facevano prima di entrare in galera, e Vincenzo ha risposto: ladro di professione. Giuseppe invece mi ha fatto capire che basta poco per andare fuori di testa: il suo migliore amico era stato investito da un camion e lui era impazzito per il non senso di quel fatto, si era convinto che non vale la pena credere nella giustizia, prima di tutto quella divina. Perché a volte sei messo di fronte a situazioni incomprensibili, e allora tanto vale prendersi delle soddisfazioni, e così aveva iniziato a delinquere: un dolore non digerito ti può togliere il senno. Ma nel cuore di molti c’è un desiderio di ripartenza, che un insegnante deve essere capace di valorizzare. Come accade anche fuori, ma io l’ho compreso qui. Nel rapporto con i detenuti capisco cosa significa voler bene al destino di una persona, far emergere i talenti anche quando sono sotterrati dalle ferite della vita. In carcere ho scoperto la mia vocazione professionale, e ho capito che Dio ama in maniera incondizionata, anche quando non vengono a lezione, anche quando dicono che non ce la fanno». Claudia non minimizza le carenze strutturali e organizzative: difficile programmare e mantenere la continuità didattica quando i detenuti vengono spostati in altri istituti, senza tenere conto del progetto formativo iniziato a monte; bisogna fare i conti col sovraffollamento, con problemi di sicurezza e con la carenza del personale di sorveglianza e dell’area trattamentale. «A volte hai proprio la sensazione che il carcere sia concepito come un contenitore di male che deve rimanere ai margini della società. Ma in mezzo a tutto questo fango riescono a spuntare fiori. Vedo fiorire l’umano e questo mi dà l’ossigeno per continuare, e sta cambiando la mia vita».
Rossana Gobbi insegna italiano agli stranieri nel CPIA (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti) presso il carcere bolognese della Dozza. Tanti detenuti sono scarsamente alfabetizzati o analfabeti anche in lingua madre, altri si stanno laureando. «In carcere ho verificato la verità delle parole di Papa Francesco quando diceva “qui ci potrei essere io”. Incontrando storie di miseria e di dolore, scopri ogni giorno il valore infinito della persona, tocchi con mano che l’uomo non è il suo errore e apprezzi la ricchezza che viene dall’incontro con culture, lingue e esperienze diverse. Ed è interessante vedere i cambiamenti che accadono, di cui a volte sono loro i primi a stupirsi. Ma anche io sono cambiata, meno pregiudizi e più apertura all’altro: perché c’è, non perché corrisponde alle tue aspettative». Rossana racconta di un laboratorio teatrale con le studentesse della sezione femminile, dove si è cimentata con la scommessa di allestire in carcere “Il pranzo di Babette” con l’aiuto dell’attore Andrea Soffiantini. La rappresentazione si è conclusa con il pranzo preparato nelle celle e offerto a tutti i partecipanti: il pubblico, gli educatori e gli agenti di servizio. «Un’atmosfera di festa, con la sorpresa di molti tra i presenti e la gran soddisfazione delle mie donne che si sono sentite valorizzate». Un’altra scommessa risale all’estate scorsa: sotto il caldo afoso del mese di luglio 60 studenti dei corsi scolastici si sono messi all’opera con 4 docenti per imbiancare tutta l’area pedagogica: le aule, i bagni e il lungo corridoio, arricchito da due murales ispirati alla tecnica del pittore olandese Mondrian. I detenuti si sono organizzati in gruppi prendendosi cura di uno spazio, ogni ambiente ora riflette la creatività di chi ci ha lavorato. L’ultimo giorno gli insegnanti hanno offerto una torta che recava la scritta “insieme si può fare”. A un anno di distanza l’area pedagogica è ancora bella e curata, un seme di bellezza è stato piantato.
Licia Baldi è entrata quarant’anni fa nel carcere di Porto Azzurro in occasione di un convegno, e da allora è diventato la sua seconda casa. «Quando domandai ai detenuti cosa potevamo fare per loro, ci risposero: non vogliamo morire di carcere, vogliamo studiare. C’era già la scuola media, chiesero di aprire una sezione di liceo scientifico. Si iscrissero in 30, a fine anno qualcuno era stato trasferito, altri avevano abbandonato. Rimasero in 5, ma per quei 5 ne era valsa la pena». Per dodici anni Baldi ha insegnato come volontaria, poi una convenzione tra i ministeri dell’Istruzione e della Giustizia ha portato all’apertura di una sezione distaccata del liceo di Portoferraio nella Casa di reclusione di Porto Azzurro, dove lei ha continuato fino a oggi a promuovere attività culturali. «La scuola è un mattone fondamentale per dare concretezza all’articolo 27 della Costituzione in base al quale le pene devono mirare alla rieducazione del condannato. Aveva ragione Socrate: l’ignoranza è la peggiore delle schiavitù. Insegnare è comunicare il senso della vita, e questo diventa decisivo in un carcere, dove spesso lo si smarrisce. La mia bussola è sempre stata la frase di Terenzio: “ Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, sono un essere umano, niente di ciò che è umano mi è estraneo. Non giudico nessuno, sono qui per condividere». La Baldi è da tempo in pensione ma i detenuti restano nel cuore: è tra le fondatrici dell’associazione Dialogo che promuove numerose iniziative intramurarie (scuola, biblioteca, teatro, musica) e che grazie all’aiuto della diocesi di Massa Marittima-Piombino nel 2003 ha aperto una casa d’accoglienza per ospitare i detenuti in permesso e i familiari che li vanno a trovare. Con il progetto Universo Azzurro vengono affiancati i detenuti che frequentano l’università, aiutando anche a pagare le tasse e a procurare i testi per gli esami. L’anno scorso, a 88 anni, la prof ha ricevuto una telefonata inattesa: dal Quirinale le hanno comunicato che il presidente Mattarella l’avrebbe insignita del titolo di commendatore dell’ordine al merito della Repubblica «per il suo costante impegno in attività educative e di assistenza ai detenuti nella Casa di reclusione di Porto Azzurro». «È stata un’emozione indicibile, e alla mia età certe emozioni possono essere pericolose – sorride –. Ma la soddisfazione principale è per un riconoscimento che premia il meraviglioso mondo del volontariato penitenziario».
(11 - continua)

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