Il prezzo della verità: Brusca libero e le ferite che non smettono di bruciare

Il fine pena per il boss solleva dolore e domande: è giustizia lo sconto sui delitti o compromesso necessario per sconfiggere la mafia dall’interno? Eppure la legge la volle Falcone
June 5, 2025
Il prezzo della verità: Brusca libero e le ferite che non smettono di bruciare
Le ferite inferte dalle stragi mafiose, nella storia recente della Repubblica, sono fra le più difficili da rimarginare. A farle riaprire, a volte, concorrono la riapertura di un’inchiesta, un anniversario o la flebile speranza di scovare altri brandelli di verità giudiziaria nella ricerca dei mandanti. E nel frattempo può accadere, ed è il caso di cui ragioniamo, che nel calendario di un tribunale arrivi il giorno del “fine pena” per uno di quegli assassini che le suddette stragi – e molte altre efferatezze – contribuirono ad architettare e a eseguire. Ora tocca a Giovanni Brusca, classe 1957, già capo mandamento di San Giuseppe Jato e boss dei Corleonesi, soprannominato lo scannacristiani. Per conoscerne la ragione, può bastare l’agghiacciante descrizione che lui stesso rese al giornalista Saverio Lodato: «Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l'autobomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso».
Ecco, viene da chiedersi, per una tale montagna di atrocità, confessate e riscontrate nei processi, quale pena sarebbe davvero “giusta”? Quale castigo in terra sarebbe adeguato rispetto al carnefice che fece sciogliere un ragazzino nell’acido e che premette il bottone del telecomando del tritolo di Capaci? Com’è noto, la condanna che, in base alle leggi dello Stato, i giudici gli hanno comminato e che lui ha appena terminato di scontare ammonta a venticinque anni di detenzione più altri quattro di libertà vigilata. Troppo poco? Avrebbe meritato uno, due, dieci, cento ergastoli? Non compete a noi dirlo. Ma comprendiamo l’amarezza che in queste ore esprimono, con la composta dignità di chi ha sempre lottato per la legalità, uomini come Giuseppe Costanza, scampato per miracolo all’attentato, o donne come Tina Montinaro, vedova del caposcorta Antonio, entrambi convinti che questa «non è giustizia», perché «chi è stato ucciso non tornerà più in vita».
Frasi pronunciate a testa alta, in cui non risuona brama di vendetta, quanto piuttosto umanissima sofferenza. Ciò detto, la commozione per le centinaia di vittime non deve impedirci di vedere la realtà per ciò che è. La prima disciplina sui collaboratori di giustizia mafiosi nasce con un decreto-legge, il numero 8 del 1991, caposaldo di una materia integrata più volte in seguito. A ispirare quel testo, è bene non dimenticarlo, fu proprio Falcone, mentre dirigeva gli affari penali del Ministero della giustizia. A lui era chiaro quanto fosse necessario, per scardinare l’omertà e i ranghi di cosa nostra e delle altre mafie, un sistema “premiale” che convincesse i cosiddetti “pentiti” a fornire uno spaccato dall’interno. E come occorresse una cornice giuridica chiara per un fenomeno che già dagli anni Ottanta, con le storiche deposizioni di Tommaso Buscetta, stava dando frutti nei processi contro le cosche.
Chi allora era in prima linea, come l’ex presidente del Senato Pietro Grasso, amico e collega di Falcone, giudice a latere nel primo maxi-processo e poi procuratore nazionale antimafia, oggi non nega di provare, come tutti, «rabbia e indignazione». Ma poi invita a non ragionare “di pancia”, perché – e questa valutazione va tenuta a mente – con Brusca lo Stato ha vinto tre volte: quando lo ha catturato, quando lo ha convinto a collaborare e ora che è un esempio per tutti gli altri mafiosi, mostrando come «l’unica strada per non morire in carcere» (come è accaduto a Totò Riina, Bernardo Provenzano e da ultimo a Matteo Messina Denaro) è quella di confessare e aiutare la macchina della giustizia. Un baratto – notizie, verificabili, su crimini e affiliati in cambio di protezione e sconti di pena – di cui Brusca e altri hanno fruito, non in virtù di un qualche “perdonismo giudiziario”, ma sulla base di una norma dello Stato, forse cinica (sempre che una norma possa esserlo) ma allora come adesso pragmatica e necessaria.
«Questa è la legge, ispirata da Giovanni, di cui Brusca ha beneficiato» ribadiscono – senza nascondere il dolore che provano – due cittadini esemplari come Maria Falcone, sorella del giudice palermitano, e Alfredo Morvillo, fratello della sua compagna Francesca. Certo, ogni legge è perfettibile e si può trarre insegnamento da certe situazioni per migliorarla, come ipotizza la presidente della Commissione parlamentare antimafia Chiara Colosimo. Ma la sua ratio rimane. In virtù di quella legge, dunque, l’ex padrino Brusca resta sotto protezione, ma è un uomo «libero», come si dice, sempre che lo possa davvero essere chi porta sulla coscienza il peso terribile di tante vite spezzate. E se la nostra Costituzione ha un senso, forse bisognerà augurarsi che la pena scontata, lunga o breve che sia stata, abbia generato un barlume di vero cambiamento, perfino in un uomo col suo feroce e non cancellabile passato.

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