Il Made in Italy da tutelare e la catena dei valori

La legge approvata al Senato ha giuste intenzioni, ma rischia di deresponsabilizzare il committente rispetto alle imprese in subappalto. Ecco quali sono i nodi critici da affrontare
October 24, 2025
Un operaio con uno striscione protesta per la sicurezza sul lavoro
Una manifestazione per la sicurezza sul lavoro / ANSA
I prodotti che compriamo hanno una sorta di “anima”? Riflettono, cioè, lo spirito di chi li produce? La marca non è forse una firma che proietta sul prodotto un universo di informazioni e valori, fondamentali per determinare la scelta da parte del consumatore? Sono domande non inutili nel momento in cui in Senato è stato approvato un pacchetto di norme per tutelare la filiera del Made in Italy. Obiettivo condivisibile. Se non fosse che nel testo varato si limita la responsabilità del committente italiano rispetto alle imprese in subappalto. La società capofila, infatti, può sottrarsi a certi obblighi se ottiene una certificazione volontaria di filiera, una scappatoia che rischia di indebolire la tutela reale dei lavoratori. Le cronache giudiziarie degli ultimi anni, infatti, hanno evidenziato come in diversi casi nella produzione dell’alta moda si siano concentrati, all’ultimo anello della catena di subappalti, sfruttamento dei lavoratori, caporalato e insicurezza del lavoro. Abusi particolarmente odiosi quando riguardano la fattura di capi d’abbigliamento venduti per migliaia di euro nei negozi e fabbricati invece pagando due euro l’ora gli operai che cuciono tessuti in scantinati insalubri.
I sindacati, perciò, parlano di scelta “inaccettabile” e chiedono di ridiscutere la norma. La giusta difesa del sistema moda italiano, infatti, non può avvenire a scapito dei più deboli, i lavoratori sfruttati. Al contrario, dev’essere l’occasione per una bonifica profonda di tutto il comparto. Finalità che crediamo sia nelle intenzioni di Governo e maggioranza ma che rischia di non essere raggiunta con questo impianto legislativo.
Un primo problema riguarda la responsabilità. Quella del committente non deve essere esclusa e non può fermarsi neppure al livello iniziale di appalto. Perché si è visto che i passaggi delle commesse sono più d’uno e la prima società è molto spesso solo un’intermediaria, magari priva di personale adeguato ad assicurare un’effettiva produzione. Talvolta funge semplicemente da “schermo” e guadagna affidando a sua volta la realizzazione materiale dei prodotti a fabbriche che agiscono fuori dalle regole, a un costo irrisorio al quale non possono che corrispondere lavoro nero, sfruttamento e insicurezza.
C’è poi un tema più generale e concerne l’appalto di produzione in sé. Il sistema economico moderno si basa sulla specializzazione ed è dunque logico che un grande gruppo deleghi all’esterno del suo perimetro alcune attività preparatorie o accessorie rispetto al proprio business principale. Ma che senso ha far produrre da società terze beni che rappresentano l’essenza della propria attività di marchio? Per capirci: scarpe “firmate” modellate, sagomate, orlate e rifinite da altri soggetti esterni al gruppo di cui vantano l’etichetta possono essere ancora considerate di quel marchio? Solo perché le hanno disegnate i suoi stilisti, senza che poi il gruppo le abbia realizzate direttamente?
Si torna così alle domande iniziali. Sappiamo da tempo come, in particolare nell’alta moda, ciò che viene posto in vendita nei negozi non è semplicemente un prodotto ‒ con le sue caratteristiche fisiche e di progettazione ‒ ma uno status, un desiderio di appartenenza. Non c’è alcuna correlazione economica tra il costo di produzione e commercializzazione di una borsa “firmata” e le decine di migliaia di euro del suo prezzo di vendita. Una borsetta “griffata”, però, non può essere venduta a meno, perché il suo valore, la sua esclusività risiede solo in minima parte nella qualità della fattura e vive invece soprattutto proprio del prezzo esagerato, che non tutti possono permettersi, esattamente quel che conferisce lo status. In tal modo, la maggior parte dei grandi gruppi del lusso è riuscita a massimizzare la catena del valore, alzando al massimo il prezzo finale e contenendo al minimo, anzi sotto i minimi, i costi di produzione grazie al subappalto e spesso al lavoro irregolare. Così, però, rischia di perdersi la catena dei valori di un’attività imprenditoriale: quella che si trasmette in tutte le fasi grazie allo stile di attività dei suoi manager e dipendenti, cioè della comunità che è la vera anima di ogni impresa. E dona al bene finale quello “spirito interiore”, che la marca dovrebbe testimoniare. Se lungo tutta la filiera il comportamento è etico, il prodotto finale lo rispecchieràE solo quando la bellezza di un bene rifletterà anche la giustizia della sua produzione, allora potremo dire di aver davvero difeso il Made in Italy.

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