Il lavoro in carcere? Serve una riforma realista e radicale

La maggior parte dei 62mila detenuti ha difficoltà nell'accesso a un impiego. Nicola Boscoletto, della cooperativa Giotto: «Attività poco formative. Dobbiamo dircelo: il sistema qui ha fallito
August 18, 2025
Il lavoro in carcere? Serve una riforma realista e radicale
-- | Il call center all’interno del carcere Due Palazzi di Padova. Ha dato lavoro a 1.500 detenuti
Il lavoro è una delle leve più potenti per favorire la ripartenza umana delle persone detenute. E tutti auspicano che le poche, pochissime occasioni per praticarlo che sono oggi disponibili si moltiplichino. Ma c’è anche chi mette in guardia da facili demagogie e invita e guardare la questione con il realismo necessario. Come Nicola Boscoletto, fondatore della cooperativa sociale Giotto di Padova, pioniere e profondo conoscitore del tema, e proprio per questo critico con chi vende sogni a buon mercato. «Guardiamo con la lente d’ingrandimento dentro i numeri. La maggioranza dei 62mila che vivono in carcere fa i conti con gravi problemi sanitari: dipendenze da droga, alcol, gioco, psicofarmaci, spesso associate a patologie psichiatriche. Aumentano i cosiddetti “plurisvantaggiati”, che assommano nella stessa persona più di una fragilità. Per loro il carcere è il posto sbagliato: dovrebbero essere trasferiti in comunità o in altri luoghi adeguati alla loro condizione per essere seguiti da professionisti di varie discipline, e comunque non sono in grado di lavorare. Gli stranieri sono circa un terzo del totale, molti hanno alle spalle viaggi in cui hanno visto la morte in faccia e violenze d’ogni genere, e anche a distanza di tempo ne patiscono le conseguenze a livello psicologico e comportamentale. Inoltre spesso non conoscono l’italiano: anche tra di loro la percentuale dei candidabili al lavoro è molto bassa. Se aggiungiamo i 9.400 ristretti nei reparti di alta sicurezza ai quali è praticamente precluso l’accesso al lavoro, le persone anziane, quelle con invalidità fisica - che aumentano con l’aumentare degli anni di detenzione -, gli ergastolani e i condannati al 41 bis (740), scopriamo che la quota di coloro che possono accedere al lavoro si riduce di molto. Eppure, qualcuno continua a illudere l’opinione pubblica e a vendere sogni parlando di decine di migliaia di detenuti candidabili a un’occupazione». Ma l’analisi-denuncia di Boscoletto si spinge più in profondità: «Diciottomila sono occupati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, poco meno di un terzo del totale, ma costoro non svolgono lavori “veri”: nella maggior parte dei casi si tratta di attività scarsamente qualificate, saltuarie, improduttive, poco remunerate e che non sono legate a professionalità spendibili “fuori”: portavitto (quelli che distribuiscono il cibo nelle sezioni), spesini (raccolgono le ordinazioni e distribuiscono la spesa), scopini (addetti alle pulizie). Non imparano nulla, e chi li assumerebbe una volta usciti? Questo non è lavoro, è una forma assistenzialistica e perciò diseducativa di mantenimento. Solo circa 3.000 persone, il 5 per cento del totale, lavorano alle dipendenze di soggetti esterni (cooperative e imprese private) con regolare contratto».
Che fare allora? «Bisogna andare alla radice del problema e prendere atto che questo sistema carcerario ha fallito: lo dimostrano gli alti tassi della recidiva, le condizioni di vita negli istituti penitenziari, l’elefantiasi della burocrazia che frena chi cerca di innovare. Investire nel recupero effettivo dei detenuti farebbe risparmiare una valanga di denaro e aumentare la sicurezza, ma se non si cambia la governance, il lavoro in carcere non può decollare. Tutti i soggetti in campo – direttori, educatori, magistrati, polizia penitenziaria, cooperative, volontari - dovrebbero concorrere a un’opera di riforma radicale e condivisa; invece, ognuno vive nel proprio silos con poca o nulla comunicazione con gli altri. Il metodo da seguire è quello della sussidiarietà circolare più volte auspicata dall’economista Stefano Zamagni: mettere in comune le competenze e valorizzare le esperienze già in atto. L’imprenditoria sociale presente da anni all’interno degli istituti penitenziari e che oggi dà lavoro a circa 900 persone detenute, ha molto da dire grazie alla competenza maturata sul campo, ma viene considerata dalle istituzioni una ruota di scorta. Nessuno si salva da solo: la frase di papa Francesco vale anche per il mondo carcerario, ma purtroppo non stiamo andando in quella direzione». Boscoletto è uno dei fondatori della cooperativa Giotto, nata nel 1986 per iniziativa di un manipolo di giovani neolaureati che, ispirandosi al carisma di don Luigi Giussani, avviarono una serie di attività a scopo sociale, puntando sul lavoro come strumento per la realizzazione della persona. Al carcere Due Palazzi di Padova in questi anni la cooperativa ha dato lavoro a più di 1.500 detenuti, oggi gestisce un call center per le prenotazioni delle visite mediche per conto dell’Azienda sanitaria locale e varie attività di assemblaggio commissionate da imprese del territorio, dando occupazione complessivamente a circa 70 persone. Le attività legate al settore dolciario – tra cui il panettone, che ha raggiunto fama internazionale – sono invece gestite dalla cooperativa Work Crossing, che dopo essere stata avviata dalla Giotto ha acquisito una sua indipendenza. Nel call center, che fino a pochi anni fa occupava 100 persone, oggi lavorano solo in 30. A cosa si deve questo calo verticale? «Le commesse non mancherebbero – osserva Gianluca Chiodo, presidente della cooperativa – ma l’amministrazione penitenziaria non ha preso le misure conseguenti ai profondi mutamenti intervenuti nella popolazione detenuta: oggi molti non hanno le caratteristiche per accedere a un’occupazione qualificata e spesso i tempi di permanenza sono troppo brevi per investire sulla formazione. C’è chi propone di estendere i call center, senza però tenere presente che quelli esistenti sono sottoutilizzati con l’invio di pochissime persone detenute, e comunque gli istituti penitenziari che presentano caratteristiche logistiche adeguate per questa attività sono pochi. Per consentire a quelli esistenti di rispondere alle richieste del mercato del lavoro, bisognerebbe trasferirvi i detenuti che hanno le capacità necessarie. Anche in questo caso è una questione di realismo, ma nei luoghi decisionali ci sono il coraggio e la volontà di adeguare le risposte a una situazione radicalmente cambiata?».
Il call center della Giotto è stato il trampolino grazie al quale Antonio ha fatto il salto verso una nuova vita. Vi ha lavorato da detenuto per sei anni, e da quando ha finito di scontare la pena continua a farlo da uomo libero: oggi come team leader insegna ad altri operatori il lavoro che era stato insegnato a lui. «Mi occupo di loro come qualcuno in passato ha fatto con me. È una forma di restituzione del bene ricevuto, per il quale non smetterò mai di essere grato. Vivere in cella è un’esperienza altamente logorante, il lavoro restituisce dignità, fa crescere la stima di sé, percepire uno stipendio secondo le regole del mercato permette di aiutare la famiglia. La sventura peggiore? Restare soli. Incontrando quelli della Giotto e i volontari ho conosciuto persone che hanno preso a cuore la mia persona e hanno accompagnato la mia ripartenza». Gianluca Chiodo annuisce: «Al di là delle considerazioni economiche, la gratificazione più grande per noi è vedere il cambiamento delle persone. Un cambiamento che quasi sempre è il frutto di incontri, di amicizie. Come amava ricordare don Bosco, parlando dei suoi ragazzi pericolanti: se questi giovani avessero incontrato degli amici con cui consigliarsi, non avrebbero percorso strade sbagliate. Ma in fondo, non potremmo anche noi dire la stessa cosa, guardando alla nostra vita?».
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