I tre carabinieri morti, i tre fratelli in disgrazia. Se si fosse arrivati prima?
Ci fossimo accorti, che, isolati, senza luce e riscaldamento, e con il terrore di perdere la loro unica certezza, presto si sarebbero avviati verso la follia

L’Italia s’ inchina davanti a Marco, Davide e Valerio, i carabinieri morti nello scoppio della cascina di Castel D’Azzano, di cui oggi pomeriggio si celebrano i funerali di Stato nella Basilica di Santa Giustina a Padova, alla presenza del presidente Mattarella e della premier Meloni. Condoglianze vivissime non solo alle famiglie dei tre caduti sul lavoro ma a tutta l’Arma, a cominciare dal generale Salvatore Luongo. La morte di Marco, Davide e Valerio, però, è diversa da quella del loro collega Carlo Legrottaglie, morto nel mese di giugno in Puglia in un conflitto a fuoco con due spietati malviventi. Qua si tratta di due fratelli e una sorella che solo a guardarli fanno tanta pena. Chi sono lo abbiamo saputo in questi giorni. Il motivo per cui hanno fatto una strage ci è chiaro. Vivevano in condizioni pietose nella loro tenuta, senza luce e senza riscaldamenti. Erano caduti in disgrazia. Avevano problemi con le banche. La cascina, le mucche, la terra, da sempre arata e amata, erano le loro uniche certezze, senza le quali si sarebbero smarriti. Vivevano nel terrore di perdere l’unica ancora di salvezza. Nella vita si può rinunciare alle vacanze e ai vestiti nuovi; possiamo risparmiare sul pranzo e sulla cena; un tetto – freddo quanto vuoi, però, è necessario. Tolto quello si finisce sotto i ponti. Erano lucidi i tre fratelli? Non lo so, di certo la perdita della cascina occupava le loro menti e le loro giornate.
La domanda sorge spontanea: si sarebbe potuto andare incontro al dramma che stavano vivendo? Avevano già minacciato di riempiere di gas la cascina nel momento in cui tutto sarebbe apparso perduto. Volontà di uccidere o solo l’ultimo, disperato, grido di aiuto a una società, che ai loro occhi, appariva senza cuore? Nessuno potrà dirlo con certezza. Tre carabinieri morti nell’adempimento del loro dovere. Tre eroi di cui l’Italia aveva quanto mai bisogno. Tre famiglie gettate nel dolore. Tre anziani dalle facce smarrite e smunte, destinati a rimanere senza casa, senza terra, senza mucche e senza libertà. Dio mio, quanta sofferenza irrora questo nostro povero mondo. Sulla vita non si transige. Siamo responsabili della nostra e di quella degli altri, si ritenessero anche nostri nemici. Lo sconcerto che ci angoscia non è solo verso coloro che della vita fanno scempio deliberatamente, ma – oserei dire: soprattutto – verso coloro che la maltrattano, la umiliano, la uccidono per imprudenza, prepotenza, vanità, pigrizia, egoismo. Penso in questo momento a tutte le vittime sul lavoro e alle morti sulle strade. Possibile che non si riesca a capire che guidando con il telefonino in mano puoi provocare guai? Penso agli ultimi, sempre più orribili, femminicidi. Per quanto si possa comprendere la complessità di una relazione che finisce, mai e poi mai si potrà giustificare il ricorso alla violenza – fosse anche solo verbale - verso il proprio partner. Combini un omicidio, spegni la vita della donna che dicevi di amare, vai a finire in carcere, il rimorso ti farà compagnia per gli anni che ti restano. Lo so, come Maranzano, l’assassino di Paolo a Palermo, dirai che “in quel momento non hai capito niente”. Non è vero, questa è una menzogna. Tu sapevi tutto. Avresti solo dovuto fare ricorso all’intelligenza, alla prudenza, a quell’amore che dicevi di provare. Ritorna la domanda: possiamo arrivare prima? Siamo stanchi di piangere tanti morti. Anche la giustizia, giustamente invocata ad alta voce, in fondo, è poca cosa. La mamma di Paolo Taormina vuole che suo figlio torni a casa. Allora sì che le avremmo reso giustizia. Stessa cosa per la mamma della povera Pamela. I cristiani, si sa, sono ammalati cronici di speranza. Proprio non ne possono fare a meno. A costo, sovente, di scandalizzare i benpensanti, i giustizialisti, quelli del “gettate via le chiavi” o “ meglio ritornare alla pena di morte”, i cristiani, dicevo, non smettono di credere che nel fondo di ogni cuore, c’è una flebile fiammella che continua a bruciare. Magari è ridotta solo a uno stoppino fumigante, ma non è del tutto spenta. Nessuno ha il diritto di calpestarla. Tutti hanno il dovere, con la delicatezza di una mamma che culla il suo bambino, di soffiarci sopra con l’intento di alimentarla. Sì, avremmo potuto fare di più per evitare tanta morte e tanto dolore. I fratelli Ramponi si sono trasformati in assassini. Saranno giudicati e puniti. Giusto. Nessuno mai, però, potrà restituire ai loro cari Marco, Davide, Valerio.
Fossimo arrivati prima a tendere una mano a questi tre anziani. Ci fossimo accorti – e l’Italia ha tutti gli strumenti per poterlo fare – ci fossimo accorti, dicevo, che, isolati, senza luce e senza riscaldamenti, con quei cappucci calati in testa, forse alimentandosi poco e male, e con il terrore di perdere la loro unica certezza, presto si sarebbero avviati verso la follia. La solidarietà non deve essere una parola vuota. E nemmeno deve valere solo per gli individui. Occorre dotare le istituzioni, le banche, gli uffici pubblici, gli ospedali, la politica, di un volto umano. Prima che l’intelligenza artificiale prenda il sopravvento e ci riduca a sigle e numeri senza nomi. A volte basta incontrare un funzionario, un medico, un impiegato, un prete, che va al di là della gelida burocrazia e ti tende una mano, per riprendere a lottare e a sperare. I fratelli Ramponi si sono macchiati di un peccato atroce. Fossimo arrivati prima avremmo avuto tre assassini in meno, tre ottimi carabinieri in vita.
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