I “ribelli dell'orale” e quelle domande che noi adulti dobbiamo ascoltare
I ragazzi di questa generazione definita a ragione inquieta e ansiosa chiedono ascolto. E non si possono liquidare le loro istanze – scomposte finché si vuole, ma sincere – come bravate
Vero: tre su mezzo milione saranno pure un campione ben misero, statisticamente parlando. Ma i numeri non sempre dicono tutto delle realtà umane. E qualche umanissima domanda merita di farsela se i tre (su oltre 500mila candidati) sono i maturandi che in altrettanti giorni e proprio in coda agli orali – ormai all’epilogo – in licei e città diverse hanno deciso di contestare il metodo di valutazione dell’esame di Stato non affrontando la prova individuale davanti alla commissione schierata. O meglio: sedendosi regolarmente quando arriva il proprio turno ma solo per annunciare che, con tutto il rispetto, questo modo di esaminare il mio percorso non lo ritengo in grado di giudicarmi, e quindi mi sottraggo.
Come difendendo una dignità incompresa, il proprio vero volto. Io non sono la somma aritmetica delle prestazioni su prove cervellotiche – l’orale nella forma attuale questo è ¬– con la quale pensate di certificare la mia “maturità”: la mia competenza a entrare nel mondo adulto sarà pure qualcosa in più di un eloquio più o meno riuscito collegando una dozzina di materie con acrobazie concettuali degne di un equilibrista.
Se Gianmaria, il primo a mettere in atto la clamorosa protesta in un liceo scientifico di Padova, poteva essere un caso curioso e isolato, subito dopo Maddalena – in un altro scientifico, ma di Belluno – ha dato parole a una contestazione senza precedenti spiegando agli esaminatori la sua rinuncia all’orale con il personalissimo dissenso sui «meccanismi di valutazione scolastici, l’eccessiva competitività e la mancanza di empatia del corpo docente». Un ribaltamento del giudizio: la maturità della scuola, uscita respinta.
«Non hanno capito le mie difficoltà umane – ha poi aggiunto parlando con i media locali –. Ho fatto un discorso ai professori, me l’ero preparato a lungo. Ho provato a descrivere nel dettaglio quello che, secondo me, a scuola non funziona. Mi hanno ascoltata con interesse, per la prima volta credo di aver sentito il loro aspetto umano». Non una facinorosa politicizzata, si direbbe, ma una ragazza che a un certo punto ha deciso di non assecondare più un sistema indifferente alla sua persona perché solo interessato «al voto». Si aspettava molto di più dalla scuola, si è sentita delusa, tradita: vi interessa la lezione imparata a memoria (o copiata da ChatGpt...)? Non mi piegherò a questa mediocrità. Così ha preso coraggio, ha studiato un discorso che certamente le è costato più impegno di quel che le sarebbe bastato per uscire con un voto dignitoso per passare finalmente ad altro sistemando la “pratica”. E ha affrontato il vero esame per capire se è matura o no: lei sola, con le sue convinzioni lungamente meditate, davanti a una decina di prof sorpresi e perplessi per un gesto in fondo del tutto velleitario. Bastava un’oretta a ripetere quel che bene o male aveva mandato a mente; invece, ha scelto la strada della prova di maturità, quella della sua vita, la più difficile.
Il giorno dopo a Treviso – sponda classico – un altro ragazzo ha compiuto lo stesso gesto: rispettoso, lucido, fermo, argomentato. Alle cronache non risultano piazzate nevrasteniche, volantinaggi, auto-designazioni a portavoce di una ipotetica dissidenza studentesca. Nessun protagonismo, a occhio. Ma ragioni ponderate. Voci sincere, come di un malessere lungamente covato che infine tracima ed esige quel che a noi adulti ormai riesce a fatica: l’onestà con sé stessi, e l’assunzione coerente di una responsabilità verso ciò che ha causato un disagio profondo, la rinuncia dolorosa a una parte decisiva di sé, la compressione di pensieri complicati da gestire, sentendosi dalla parte del giusto ma nell’impossibilità di dimostrarlo. Quando tutto questo groviglio diventa ingestibile non resta – tre su mezzo milione – che esporsi, disposti a pagare di persona. Perché omettere l’orale vuol dire rinunciare a venti punti (su cento totali), certo sapendo che non saranno decisivi ma comunque giocandosi il voto e la faccia. Onestamente: quanti di noi sarebbe disposti a farlo, in un passaggio avvertito come cruciale nella vita?
Lo stesso clamore prodotto nell’opinione pubblica da questi tre diciottenni (o quattro: emerge un altro caso a Firenze, con una storia da decifrare) mostra da solo che con la loro semplice obiezione alla forma dell’esame hanno aperto una ferita che forse già sanguinava, non vista. E che a farlo sia la generazione che cinque anni fa affrontò l’esame di terza media in Dad e che il volto dei propri compagni di liceo l’ha scoperto dopo un anno e mezzo di lezioni a distanza e mascherine deve indurci a una qualche attenzione verso il disagio di questi ragazzi (un’intera generazione, in realtà, con segnali frequenti e drammatici) un po’ meno sbrigativa di alcune reazioni orientate a riportare ordine e obbedienza senza mostrare vero interesse verso i contenuti della protesta. Sappiamo fare di meglio.
Gli studenti, i ragazzi, i figli di questa generazione definita a ragione inquieta e ansiosa chiedono ascolto. E liquidare le loro istanze – scomposte finché si vuole, ma sincere – come bravate da stroncare non è il modo migliore per chiedere e ottenere “maturità”. Dalla scuola, e da noi adulti, chiedono che diamo ragione del modo in cui li giudichiamo: non numeri e prestazioni, ma volti di un’umanità impetuosa e viva, affamata del futuro che li chiama. E allora chiediamoci, prima di metterli a tacere: sappiamo renderglielo desiderabile?
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