Fino a quando la pistola nucleare resterà lì, appesa al muro?
La crisi del principio di deterrenza atomica in un contesto di disordine geopolitico genera molti timori. Pensando alla massima di Cechov sul teatro

Un celebre principio drammaturgico noto come “la pistola (o il fucile) di Cechov” afferma che se all’inizio di una pièce compare un’arma da fuoco, prima del sipario quell’arma avrà necessariamente fatto fuoco. Nella sua forma originaria, espressa dall’autore russo in una lettera del 1° novembre 1889 al regista Aleksandr Lenskij, il pensiero suonava così: «Se nel primo atto c’è un fucile appeso al muro, nel secondo o terzo atto deve assolutamente sparare. Se non deve sparare, non deve stare lì». Se dal campo della finzione teatrale ci spostiamo a quello della realtà, il principio si ribalta. Nel nostro mondo ci sono le armi, sempre più armi e sempre più potenti: progettate non per attaccare un potenziale nemico, ma per dissuaderlo dall’attaccare. Come ha lapidariamente sintetizzato Norberto Bobbio (nella voce “Pace” per il I Supplemento dell’Enciclopedia del Novecento Treccani, 1989), l’efficacia finale di questi strumenti “dipende non dal loro uso effettivo, ma semplicemente dalla minaccia del loro uso”. E però, cechovianamente, questi strumenti “stanno lì”: fino a che punto possiamo sperare che il principio enunciato dal drammaturgo non valga anche nella realtà? Fino a quando la dottrina della deterrenza non si rivelerà per quello che è, uno sconsiderato azzardo? Che il timore reciproco, basato sulla parità di potenza, sia un modo per mantenere la pace non è un’idea nuova. Duemilacinquecento anni fa l’aveva già teorizzata anni Tucidide: “l’unica garanzia”, puntualizzava lo storico ateniese, “giacché chi vuole violare i patti ne è distolto dal fatto che non assale da una posizione vantaggiosa” (III, 11, 1). Di conseguenza, possiamo immaginare che quando all’accresciuta potenza di una parte fa riscontro l’accresciuta potenza della controparte, l’equilibrio non ne venga intaccato e semmai ci si possa attendere un aumento del timore reciproco e quindi della sicurezza, con la conseguenza paradossale che al massimo di potenziale pericolosità corrisponde il minimo di pericolo effettivo. Possiamo ancora confidare in un simile automatismo nel momento in cui la tensione internazionale dilaga in ogni direzione?
La capacità dissuasiva del timore, che con alterne vicende ha ispirato per secoli i rapporti geostrategici tra gli stati, è entrata in crisi quando, intorno alla metà del ’900, la crescita esponenziale della potenza ha prodotto l’inevitabile cortocircuito che si è risolto nel paradosso estremo: il massimo della sicurezza coincide con il massimo del pericolo. Con l’avvento degli ordigni atomici, l’arma assoluta, all’equilibrio della paura si è sostituito l’equilibrio del terrore, una dimensione nuova e totalizzante che non fa distinzione tra potenziale sconfitto e potenziale vincitore, perché entrambi accomuna nell’ineluttabilità della catastrofe. Se per ottant’anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale, il buonsenso ha consentito di evitarla, nell’era del disordine globale la situazione è cambiata. Non è più il tempo della Guerra fredda, una prolungata partita a scacchi dove a ogni possibile mossa corrispondeva una possibile contromossa, e alla contromossa una contro-contromossa e così via, in una ramificazione totalmente logica, quindi in teoria prevedibile. Negli anni della “Madman theory” (teorizzata oltre mezzo secolo fa dal presidente Nixon e rilanciata su scala planetaria da Trump) nessuna previsione è più possibile. La nuova situazione assomiglia a un gioco d’azzardo, un Texas hold ’em con due carte coperte in mano ai contendenti. Le carte coperte sono le loro reali intenzioni, che cosa sono pronti a fare “nel caso che”. Al tavolo da poker, quando un giocatore pensa che l’altro stia bluffando, va a vedere il gioco: al peggio ci rimette la posta. In questo caso il rischio è un altro. E qui sta l’azzardo, la scommessa decisiva per le sorti della nostra salvezza terrena quanto quella di Pascal per la salvezza delle anime nell’aldilà. Di bombe nucleari “tattiche”, bombette “gentili” utilizzate per ammazzare e distruggere ma non troppo, si parla ormai disinvoltamente come di una eventualità praticabile: forse è un bluff, forse no. E se non lo fosse? E se qualcuno decidesse di andare a vedere? “Dietro la fiducia nell’equilibrio del terrore” (ancora Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, il Mulino, 1979) c’è “una concezione ottimistica della storia, che deriva quasi sempre da una incapacità o da un inconsapevole rifiuto di pensare al destino dell’uomo e della sua storia sino alle radici”. Va da sé che questo ottimismo trova scarso conforto nei fatti, e pure nella teoria.
Nel nono libro della Metafisica Aristotele spiega che la potenza (dýnamis) esiste in funzione dell’atto (enérgheia), e che è sbagliato sostenere che una cosa è in potenza ma non si realizzerà mai. Ora, l’arma nucleare è qualcosa che è in potenza, e che cosa è in atto lo abbiamo sperimentato il 16 luglio 1945 nel Trinity Test di Alamogordo, New Mexico, e più tragicamente poche settimane dopo a Hiroshima e a Nagasaki. Secondo i dati più recenti (aggiornati al gennaio 2025) della Arms Control Association, sono presenti nel mondo circa 12.200 testate nucleari, in gran parte nelle mani di Russia e Stati Uniti ma in percentuali minori distribuite tra altri sette o otto paesi, ognuna con una potenza distruttiva da alcune decine a migliaia di volte quella di Hiroshima. Il passaggio dalla potenza all’atto è dunque (aristotelicamente) inevitabile? In realtà il filosofo distingueva tra dynámeis irrazionali, proprie della natura e della materia, che possono attualizzarsi in un solo modo e lo fanno necessariamente se nessun fattore esterno lo impedisce (per esempio il seme che diventa pianta), e dynámeis razionali, proprie delle tecniche e del comportamento umano, nelle quali la necessità non ha luogo e che di conseguenza possono passare come pure non passare alla fase di enérgheia (il pezzo di legno è in potenza una scultura ma non lo diventa se non interviene l’azione dello scultore). L’arma nucleare, di per sé, ha soltanto il potere di deflagrare e distruggere, ma il potere di farla deflagrare dipende (ipse direbbe) da “un desiderio o scelta razionale”: è questo il fattore esterno (umano o divinamente ispirato) che può impedire alla sua potenza di divenire atto. Ma quanta presa ha ancora la ragione? E se, anche nella commedia umana, valesse la regola di Cechov?
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