C'è troppa rabbia in giro, evitiamo di abboccare
Per l’Oxford Dictionary la parola dell’anno è "rage bait", cioè pubblicare contenuti che catturano l'attenzione scatenando rabbia. L'informazione civile deve continuare a vigilare

Chissà come reagirebbe, se fosse viva, Simone Weil. Cosa direbbe la filosofa e mistica francese, che lasciò scritto «L’attenzione è la forma più rara e più preziosa della generosità»? La notizia è questa: l’Oxford Dictionary ha selezionato come parola dell’anno rage bait (“esca per la rabbia”), riferendosi al fenomeno per cui, pur di catturare l’attenzione di chi transita sul web, si utilizza un contenuto online deliberatamente progettato per suscitare rabbia o indignazione attraverso un atteggiamento provocatorio o offensivo, pubblicato per aumentare il traffico. Certo, ai tempi di Simone Weil non esisteva Internet e il mondo era radicalmente diverso dall’attuale. Tuttavia, le parole della mistica – scritte nel 1942 – non hanno perso il loro valore. Di più: suonano come una provocazione, in un mondo, quello virtuale, nel quale non solo si sgomita in ogni modo per conquistare l’attenzione, ma si titillano persino gli istinti più bassi pur di ottenere una reazione, un like in più.
Se teniamo presente che, come parola dell’anno 2024, l’Oxford Dictionary aveva individuato brain rot (“marciume cerebrale”), il cerchio sembra chiudersi. Con quell’espressione, infatti, si intende il deterioramento cognitivo e psicologico causato dal consumo eccessivo di contenuti online futili, spesso caratterizzati da stimoli visivi e sonori rapidi e senza significato. Avete letto bene: «futili» e «senza significato». Col rage bait assistiamo a un salto di qualità (si fa per dire). «È molto interessante che la rabbia, come motore commerciale, stia sopravanzando gattini e tette-e-culi, cioè la tenerezza e l’eros», ha osservato Concita De Gregorio su “Repubblica”. Molto interessante sì, e altrettanto inquietante. Già, perché – come sottolinea Casper Grathwohl, presidente di Oxford Languages – «prima, Internet si concentrava sull’attirare la nostra attenzione suscitando curiosità in cambio di clic, ma ora abbiamo assistito a un cambiamento radicale, in quanto dirotta e influenza le nostre emozioni e il modo in cui reagiamo». Secondo il saggista indiano Pankaj Mishra stiamo vivendo nell’«età della rabbia» (dal titolo di un suo famoso libro). Altri due volumi pubblicati di recente sembrano confermare tale lettura; alludo a Cinquecento anni di rabbia. Rivolte e mezzi di comunicazione da Gutenberg a Capitol Hill dello storico Francesco Filippi e a Vent’anni di rabbia. Come il risentimento ha preso il posto della politica, a firma di Carlo Invernizzi-Accetti, docente di Scienze politiche a New York. A dar retta a tutti costoro, non si spiegano fenomeni quali i “gilet gialli” francesi, gli indignados spagnoli, la Brexit o il consenso per Trump, se non con un sentimento di rabbia collettiva che serpeggerebbe, seppur in forme diverse, un po’ in tutto mondo.
La rabbia – cieca, ideologica, immotivata – è stato il carburante che ha spinto un manipolo di pro-Pal ad assaltare la redazione del quotidiano “La Stampa”. La rabbia è pure l’ingrediente pericolosissimo col quale spesso sul Web si cerca l’engagement (ovvero il coinvolgimento attivo) del pubblico. Tutto ciò produce una comunicazione sempre più avvelenata. Dannosa, perché inguaribilmente polarizzata. Ebbene. Chi pensa all’utente solo come cliente non ha problemi a sfruttare la rabbia come benzina. Al contrario, chi comunica adottando stile e parametri del “giornalismo civile” – avendo perciò a cuore il destinatario come cliente e cittadino insieme – preferisce vigilare. Perché sa bene che la rabbia è materiale infiammabile e rischia di far danni irreversibili, se non la si governa. Pensiamoci, la prossima volta che ci verrà spontaneo sui social rispondere a un commento di Vongola85.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Temi






