Silvio, Albertina e la casa che divenne una famiglia
Nel centenario della nascita di Silvio Barbieri riaffiora la sua storia e quella della moglie: una coppia lombarda che, guidata dalla fede, trasformò Casa Alber in un approdo per 121 bambini in difficoltà

«Avere una madre e un padre, oppure valide figure sostitutive, è un diritto che non può essere vissuto come una favola o affidato alla buona sorte. Il minore ha diritto alla famiglia, ha diritto alla tutela dei suoi bisogni affettivi, all’indispensabile per crescere e vivere, al maturante inserimento nei rapporti sociali». Queste parole risuonarono allo stadio di San Siro, a Milano, nel maggio del 1993, nell’ambito del convegno «Nascere e morire oggi», organizzato dai vescovi lombardi. Dopo madre Teresa, sulle zolle di San Siro giunsero due sposi, Silvio Barbieri e Albertina Negri, due sposi non più giovani, che testimoniarono il loro amore, la loro volontà di essere una famiglia anche per quei bambini e quei ragazzi esclusi, abbandonati, rifiutati, etichettati. La loro esperienza di accoglienza era «profetica», come ebbe a scrivere proprio il cardinal Carlo Maria Martini che li aveva voluti a San Siro. Nel 1961, a Olginate, nel Lecchese, avevano aperto una comunità per minori con una caratteristica: essere una casa. Nacque Casa Alber, denominata così in onore di Albertina, che in 25 anni di attività, raccolse 121 minori. Alcuni rimasero a Olginate per pochi giorni, altri per anni, sino al raggiungimento della piena autonomia.
Una storia innovativa, pionieristica che ha qualcosa da dire e da dare ancora oggi. Una storia, quella di Casa Alber, che la discrezione e la delicatezza di Silvio e di Albertina Barbieri non avrebbero voluto pubblicizzare in maniera eccessiva, una volta conclusasi. Ma che è un importante patrimonio da riscoprire, che mette in luce non solamente la modernità dei metodi educativi sperimentati, delle «strategie» per accompagnare i giovanissimi figli verso il superamento dei traumi, ma anche una santità «della porta accanto». Il 23 novembre Silvio Barbieri compirebbe cento anni; era nato infatti il 23 novembre del 1925 a Parma e morto nel gennaio di quest’anno alle porte di Lecco. In occasione del centenario dalla nascita è stato pubblicato un volume che raccoglie la storia di Casa Alber e una serie di testimonianze di amici e di ex ragazzi di quella che fu un’esperienza di famiglia aperta.

Fede e rispetto dei diritti costituzionali, come sottolinea monsignor Angelo Bazzari, già direttore di Caritas Ambrosiana e presidente della fondazione Don Gnocchi, furono i due fari che mossero Silvio Barbieri e Albertina nel dar vita a un’esperienza che ancora è valida e interessante e che, nel contesto degli anni Sessanta, risulta dirompente. Apprezzati dagli arcivescovi ambrosiani, i coniugi Barbieri seminarono bene, stando lontani da ogni forma di pietismo sterile. E Silvio «inventò» anche modalità inedite per far conoscere, in maniera quasi poetica, ma non edulcorata, la situazione di minori in difficoltà e per cercare famiglie che li accogliessero: proprio per Avvenire, sul finire degli anni Ottanta, redasse la rubrica settimanale «Adozione e affido», con 119 appelli, resa possibile da una stringente collaborazione con il Tribunale per i minorenni di Milano, grazie alla quale oltre trenta bambini trovarono una mamma e un papà; un’analoga rubrica fu pubblicata dal 1973 al 1990 sul settimanale della diocesi di Milano, Il Resegone. «La formazione di Silvio Barbieri affonda nelle Acli - spiega Maurizio Volpi, pedagogista, autore del libro Casa Alber. Un’esperienza profetica (ed. TiPiScout) che sarà ufficialmente presentato al teatro Jolly di Olginate martedì 9 dicembre e, in anteprima, a Lecco il 21 novembre -, nell’oratorio, nell’impegno in parrocchia. Apparteneva al mondo ecclesiale e aveva molti legami con sacerdoti. La svolta però fu l’incontro di queste due anime, Silvio e Albertina, lei maestra e scout, lui educatore e organizzatore. Il loro incontro alla Casa dei ragazzi di Olgiate Molgora, il rendersi conto che già stavano facendo qualcosa di molto bello, ma che forse potevano fare qualcosa di molto più importante, rappresentò la svolta».
Silvio Barbieri, che viveva a Milano, aveva assaporato l’amarezza di una condizione di vita, da bambino, segnata dalle ristrettezze economiche. Ingegnoso, approdò per vie inusuali al mondo dell’educazione, lavorando dapprima come vice direttore della «Casa del giovane lavoratore Belloni» di Milano e poi, nel 1956, alla «Casa dei ragazzi» di Olgiate Molgora, un ente sorto nel 1947 per i minori «disadattati». Fu proprio lì che la vita di Silvio Barbieri si intrecciò con quella di Albertina Negri, maestra lecchese, scout della prima ora, che dal 1950 era responsabile della Casa. Poco meno di un anno dopo l’arrivo di Silvio Barbieri alla «Casa del Giovane», i due si sposarono; nacquero in breve tempo due figli, Marco e Paolo. Entrambi ricercavano il bene dei ragazzi, con una visione che, rispetto al contesto, risulta moderna e ancor oggi attuale. Silvio e Albertina decisero infatti di dare vita a una nuova realtà, nella quale i piccoli illegittimi, «disadattati», rifiutati, si trovassero in una dimensione di casa, di famiglia e non di istituto. «La parola profezia riguardo all’esperienza di Silvio e di Albertina fu usata dal cardinal Carlo Maria Martini, in una lettera indirizzata al parroco di Olginate - spiega Maurizio Volpi -. Martini era loro estimatore a amico. Casa Alber apre nel 1961 e chiude nel 1986 e la riforma della legge sull’adozione è del 1983. Già a livello storico si può cogliere come fu innovativa e sfidante. Nel ‘61 si contavano ancora 360 mila bambini in orfanotrofio. Il modello era quello dei grandi istituti anonimi, con i sorveglianti in divisa, nei quali non c’era nulla di «mio» o di «tuo», in cui i bambini aspettavano il proprio turno nella speranza di essere presi. Casa Alber è profetica anche perché dà un nuovo approccio pedagogico, che è quello di porre delle figure significative di riferimento, in una dimensione di famiglia. Al massimo furono infatti ospitati 12 bambini alla volta. C'era una casa, nella quale i bambini potevano dire di avere i «miei» giochi, i «miei amici», i «miei» fratelli. E per la prima volta questi bambini scoprirono che esisteva una realtà esterna. Erano inseriti in oratorio, nel mondo dello sport, negli scout, e i vicini frequentavano Casa Alber.

Maurizio Volpi ebbe modo di intessere un legame profondo con Silvio Barbieri, in occasione della stesura della tesi di laurea, venticinque anni fa. Dalla voce di Barbieri, dai ricordi vividi di Albertina, Volpi ha così toccato con mano che cosa rappresentò Casa Alber per molti, quale vita vi scorreva, quale fede la innervava. «Ebbero centoventuno figli - specifica Volpi -, e i due figli naturali. Ho conosciuto l’esperienza di Casa Alber a esperienza conclusa, ho raccolto materiale da Barbieri e ora ho avuto la possibilità di conoscere personalmente alcuni di quei ragazzi. Silvio viene descritto come un padre presente, molto attento alle storie dei bambini sia mentre frequentavano la Casa che negli anni successivi. Ciò dice della cura che i Barbieri ebbero nei confronti di quei 121, fermatisi da loro in alcuni casi pochi giorni, in altri casi sino all’autonomia totale. Silvio era poi attento alla loro formazione, in maniera innovativa. Ebbe un rapporto stretto con la scuola e portava avanti con la moglie anche una forma particolare di produzione scritta, per la rielaborazione dei vissuti dei ragazzi. Dopo un brutto voto a scuola, dopo un litigio, dopo aver ascoltato un brano musicale… Silvio ha così anticipato l’importanza che la pedagogia oggi ha chiara, del mettere per iscritto, rielaborare i vissuti».
I metodi educativi applicati a Casa Alber ebbero anche la capacità di far migliorare i rendimenti scolastici dei bambini, spesso bollati già in tenera età: «Questo ci fa capire - rimarca Maurizio Volpi - come l’amore, la famiglia, la cura, trasformi ciò che rischia di essere una sentenza. Silvio diceva: Si ricicla tutto, al giorno d’oggi, si salva tutto, immagina se non salviamo un bambino». «Molte volte mi sono domandato come sarebbe stata la mia vita se non avessi incontrato Silvio e Albertina - si legge nella testimonianza di Enrico raccolta nel libro in uscita -. Avevo dieci anni quando sono stato accolto alla Casa Alber (era il 1962); fino ad allora avevo vissuto in orfanotrofio e in collegio, persino in un istituto correzionale. Solo diversi anni dopo scoprii che si trattava di un «istituto correzionale»: cosa può aver fatto di così grave un bambino di otto anni per essere mandato in un Riformatorio? [...] Con Silvio e Albertina io ho scoperto una famiglia e il mondo esterno. Mi hanno accolto come si accoglie un figlio: non più dei sorveglianti, ma due persone che si occupavano di me, che mi seguivano mentre crescevo, che pensavano alla mia salute, alla mia istruzione, al mio benessere. [...] Silvio seguiva tutti noi quando facevamo i compiti e preparavamo le lezioni; non ricordo che ci sia mai stato un ragazzo bocciato».
La vita in Casa era scandita dallo studio, dallo svago, dalle attività all’esterno, con Silvio presente, che lavorava part-time, e la moglie attenta alle esigenze di questa grande famiglia che, come un nido su un ramo (il logo di Casa Alber), accoglieva tanti piccoli. Questa famiglia speciale affondava le proprie azioni, il proprio modo di essere nella fede, ma non era, quella di Silvio e di Albertina Barbieri, un bigottismo venato di pietismo: «La fede di Silvio - commenta Volpi, che ha avuto modo di conoscere amici dei Barbieri non vicini alla Chiesa - non era mai giudicante, mai di chiusura, ma era sempre stata una fede fatta di apertura, di ascolto, di confronto che tutti gli hanno riconosciuto. Era una fede profonda che ha guidato tutta la loro vita, vissuta con discrezione. Tutto ciò che hanno fatto era guidato da questa spinta dall’amore del Padre, come si evince dalla preghiera che lessero a San Siro nel 1993 e che Ravasi definì la Preghiera dei genitori. C’era sempre il breviario sulla scrivania, l’appuntamento colla preghiera del rosario, la messa… I ragazzi di Casa Alber ebbero un’educazione religiosa rispettosa. In casa si respirava un clima di fede, ma sempre «insegnando senza cattedra». La fede e l’umanità sono stati la loro guida. Non è la storia di due cristiani bigotti, che hanno fatto tutto ciò perché quei bambini andavano salvati. C’è una profonda umanità in loro, guidata in modo intimo e discreto, da una fede profondissima». «Ricordarli - aggiunge Federica Frattini, editing del libro su Casa Alber - è anzitutto dire che è importante andare avanti insieme e ricordare che sono stati capaci di fare cose straordinarie in modo ordinario, e di cose eroiche nel quotidiano. Non sono mai emersi elementi che aprissero spiragli su difficoltà e fatiche: Silvio e Albertina avevano la capacità di diffondere amore e speranza». Il tratto caratteristico di questi coniugi si delinea con chiarezza nelle parole di coloro che li hanno conosciuti, con Casa Alber e non solamente, ed è quello di una coppia che ha compiuto scelte coraggiose, avendo come meta sempre e soltanto il bene dell’altro, anche intraprendendo strade nuove che lanciano un appello a chi vive oggi: «Non dobbiamo solo ricordare e fare memoria - interviene a proposito Frattini -, ma dobbiamo sentirci interpellati nel nostro quotidiano, dal loro quotidiano».
«Lui, presenza silenziosa - testimonia la nipote di Silvio e di Albertina, Martina, nel libro in uscita - ma costante, sapeva amare senza necessità di grandi gesti: uno sguardo che diceva tutto, una carezza che trasmetteva affetto. Amava in punta di piedi, con quella delicatezza rara che si riconosce solo col tempo. Lei, il «capo», con una volontà di ferro e un amore che era guida sicura e sostegno. […] Insieme erano il mio punto fermo, la mia bussola. Due anime diverse e complementari, capaci di illuminare, capaci di illuminare il cammino non solo mio, ma di chiunque li abbia conosciuti. La loro luce non accecava, non imponeva: era calda, accogliente, di quelle che danno sicurezza e allo stesso tempo stimolano a migliorarsi, a mettersi in gioco, a crescere».
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