È tornato il bullismo? «Noi da dieci anni lo affrontiamo così»
Il suicidio di Paolo, il 14enne di Latina che non sopportava più insulti e vessazioni, riapre il dibattito sul fenomeno. L'esperienza di Mabasta nelle scuole, raccontata dal suo ideatore Mirko Cazzato

È trascorsa una manciata di giorni dalla mattina dell’11 settembre, quando a Santi Cosma e Damiano (Latina) il 15enne Paolo Mendico veniva trovato morto nella sua camera, a poche ore dell’inizio dell’anno scolastico. La Procura di Cassino ha aperto un fascicolo per istigazione o aiuto al suicidio: secondo i genitori Giuseppe e Simonetta e il fratello maggiore Ivan, da anni l’adolescente era vittima di bullismo con messaggi, scherzi, insulti. Li avevano segnalati più volte, sostengono, senza che nessuno (o quasi) intervenisse. La scuola s’è difesa dalle accuse, dichiarando di non aver mai ricevuto denunce formali, che il ragazzo frequentava lo sportello psicologico, che non c’erano segnali che facessero pensare a dover mettere in campo protocolli straordinari. Paolo però s’è tolto la vita: qualcosa, attorno a lui, non ha funzionato.
Un caso isolato e straordinario? Tutt’altro. Secondo un’indagine Istat, presentata a giugno ma condotta nel 2023, che ha coinvolto un campione di 39.214 ragazzi rappresentativo dei 5 milioni e 140mila coetanei tra gli 11 e i 19 anni, il 68,5% dichiara di aver subìto nei 12 mesi precedenti qualche episodio offensivo, aggressivo, diffamatorio o di esclusione online e offline. È successo più volte al mese al 21% (al 23,7% degli 11-13enni, al 19,8% dei 14-19enni) e per circa l’8% la frequenza è stata almeno settimanale. «Purtroppo sentiamo non di rado storie come quelle di Paolo e mi torna in mente come abbiamo cominciato: per noi è uno sprone a fare di più e meglio» è il commento di Mirko Cazzato, 24 anni il primo di ottobre, che all’inizio del 2016 a Lecce ha fondato insieme ai suoi ex compagni delle medie e al suo professor Daniele Manni il metodo Mabasta, diventato un movimento di ragazzi che nelle scuole contrasta i fenomeni del bullismo e del cyberbullismo a partire dal confronto in classe. Un’esperienza quasi decennale, tempo in cui il mondo è cambiato, la scuola con lui, e così bulli e vittime dei bulli.
Qual è la chiave per disinnescare le vessazioni di questi ultimi?
Il gruppo è fondamentale, così il rispetto. Alle medie la mia classe era divisa in faglie, ma il diverso non c’è mai stato. Anche se non ho mai assistito a momenti di violenza fisica vera e propria, sono stato coinvolto in diverse situazioni spiacevoli, di quelle che lasciano l’amaro in bocca. Oltre a intervenire in prima persona, scrivevo dei piccoli report sul mio diario, che dopo consegnavo ai professori: una pratica non vista di buon occhio né dai miei coetanei né dagli adulti; era un argomento di cui non si discuteva granché e spesso e passavo per uno spione, mentre il mio intento era quello di invitare i professori a intervenire, ad aiutarci. Finalmente, all’inizio delle superiori, ho scoperto cosa fare per rendermi davvero utile: a gennaio 2016 il professor Manni ci raccontò che a Pordenone una ragazza dodicenne, spinta dalla disperazione, aveva deciso di farla finita e si era lanciata dal balcone di casa sua, ma il tendone di un negozio aveva attutito la sua caduta ed era sopravvissuta per miracolo. Da mesi era vittima di cyberbullismo: i suoi social si erano riempiti di messaggi violenti, insulti, minacce, fino a convincerla che non ci fosse altro modo per uscirne se non quello più drastico. Così abbiamo iniziato a lavorare insieme, era ora di dover fare qualcosa ed è nato Mabasta. I nostri volontari adolescenti incontrano ragazzi dalla quarta elementare fino al secondo superiore, ma per il 70% vanno nelle scuole medie, dove ci siamo resi conto di una maggiore efficacia dei nostri interventi perché in quella fascia d’età è più facile far cambiare mentalità. Vedere che stai aiutando qualcuno è una sensazione impagabile».
Com’è cambiato il bullismo in questo decennio, da quando avete cominciato?
Tanto: è aumentata la violenza. Quando è nato Mabasta, gli atti erano molto fisici e verbali, gli insulti arrivavano alle vittime con messaggi in chat al pomeriggio. Oggi, oltre agli insulti verbali diretti, il cyberbullismo non “si limita” alla chat privata e ai social, ma i video girati mentre le vittime subiscono le violenze vengono pubblicati in modo che tutti i contesti vicini alle vittime li vedano: il gruppo, la classe, i compagni dello sport, il paese e la città. Così le vittime a ogni sguardo penseranno che sia rivolto a loro per i soprusi subiti e non riescono a sopportarne il peso, aumenta la loro fragilità e si sentono in difetto; se in passato sapevano che magari cambiando strada avrebbero evitato di essere prese di mira, oggi sono bullizzate h24, non hanno un attimo di respiro. Inoltre è peggiorato il tempismo con cui possiamo intervenire, proprio per la velocità dei mezzi tecnologici.
Il sommerso è cresciuto?
No: se ne parlava molto meno in passato. Grazie alla sensibilizzazione, ora le vittime si rendono conto di non essere loro sbagliate e di aver bisogno di aiuto. A essere cresciute sono l’omertà, l’indifferenza, ma in classe se un ragazzo è colpito tutti devono sentirsi coinvolti e mobilitarsi. Noi puntiamo sugli “spettatori”, né vittime né bulli, che possono far emergere casi come quello di Paolo. Sono in corso le indagini, ma è strano che la scuola-istituzione non sia intervenuta: gli adulti non possono rimanere in silenzio, hanno l’obbligo e il dovere di verificare e intervenire anche laddove pensino non sia necessario e che i familiari “esagerino”.
Grazie a Mabasta, emergono vittime e bulli?
Ragazzi e ragazze ci scrivono, fermano nel corridoio gli operatori, si riconoscono e le paure fanno il posto a un percorso. Nell’anno scolastico 2023/24 è emerso un centinaio di vittime su 1.400 classi, nel successivo 200 casi (anche più di uno nella stessa classe) su 1.800 classi. Stiamo lavorando per offrire anche un accompagnamento, per ora segnaliamo i casi al dirigente, garantiamo supporto emotivo e consigli, mettiamo in contatto con alcuni esperti come psicologi e polizia postale. Se si attivano, i ragazzi sono fondamentali nel risolvere il problema, coinvolgendo gli adulti.
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