domenica 23 maggio 2021
Lei italiana, lui indiano. Con un'odissea di 11 giorni sono volati nel Paese del marito per portare a casa una bimba di due anni. Sono rientrati in Italia grazie a un permesso speciale
Monica Del Duca con il marito Anthony e la figlia Pavithra

Monica Del Duca con il marito Anthony e la figlia Pavithra

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«Calcutta-Genova in 11 giorni è un viaggio lungo, non c’è che dire, tanto ci abbiamo messo per poter tornare a casa. Di certo un percorso travagliato, ma è stato 'il viaggio' della nostra vita».

Così, con inaspettata leggerezza, Monica Del Duca racconta la sua avventura.

Con il marito Anthony era andata in India a concludere le pratiche dell’adozione della piccola Pavithra, ma non riusciva più a rientrare in Italia. E il marito, che è residente a Genova da molti anni, ma ha un passaporto indiano, con il precipitare della situazione sanitaria in India non poteva più far ritorno in Italia.

Come Monica e Anthony ci sono 56 coppie italiane in giro per il mondo che fanno riferimento a 36 enti autorizzati. Per la maggior parte l’adozione potrebbe essere un rebus.

È stato un permesso speciale per motivi umanitari, rilasciato dal ministero della Salute, ad autorizzare Anthony a salire sull’aereo con moglie e figlia, per raggiungere un Covid hotel di Como, dove la famiglia ha trascorso la quarantena.

Mercoledì il rientro a casa, a Genova. «Sì, è stato il viaggio più incredibile dei tanti che abbiamo fatto insieme – spiega Monica al telefono –. Io e Anthony ci siamo conosciuti in navigazione, entrambi imbarcati sulle navi da crociera. Ultimamente io ho iniziato a lavorare a terra, mentre lui, che fa parte del personale amministrativo, ancora va per mare… In nostro è stato un percorso adottivo molto lineare e senza alcun ripensamento: sposati nel 2013, nel 2016 abbiamo presentato domanda di adozione e l’idoneità è arrivata nel giugno del 2018. Unica condizione che abbiamo posto all’ente a cui abbiamo dato il mandato nel 2019 è stata poter adottare un minore indiano. Ci pareva naturale accogliere un bimbo che provenisse dallo stesso Paese di mio marito, anche un suo cugino aveva adottato prima di noi. I genitori sono sempre stati dalla nostra parte e non vedevano l’ora di diventare nonni. Abbiamo completato il percorso con il Ciai nel gennaio 2020, ad aprile avevamo sul nostro pc le foto della bimba, in piena emergenza Covid. Gli incontri via Skype con le autorità indiane hanno permesso di mandare avanti la pratica fino all’incontro con nostra figlia».

Abbandonata nel Tamil Nadu a 15 giorni di vita, Pavithra ha vissuto due anni in orfanotrofio «lì l’abbiamo abbracciata la prima volta», dice la mamma. Le suore l’avevano avvisata, bimba era «una piccola peste» che teneva allegri tutti. «Ed è così: vivace, incontenibile, una spugna per quanto impara alla svelta e si fa capire. Immagini la fatica tenerla chiusa in una stanza d’albergo. Durante tutta questa vicenda la speranza non è mai venuta meno e anche quando ci avevano detto che mio marito non poteva rientrare insieme con noi, sapevo che una soluzione sarebbe arrivata. Pregavo per questo. La fede non ci ha mai abbandonato, del resto mio marito sa cosa significhi essere cattolico in un Paese a maggioranza indù, quanto sia difficile e pericoloso».

«Di separarli non se ne parlava proprio», ricorda adesso Daniela Russo, responsabile delle adozioni per Ciai, l’ente a cui la famiglia si è rivolta e che li ha sostenuti anche durante la travagliata trasferta indiana.

«Si è trattato di una storia di adozione nata durante il Covid che è stata portata a termine con una modalità nuova, attraverso incontri online sia con la coppia che con le autorità indiane. Ma eravamo consci che non si poteva aspettare, lasciando la bambina in orfanotrofio. Questa coppia ci ha reso però le cose semplici sia per la tranquillità con cui ha affrontato l’emergenza all’estero che per il fatto di essersi affidata e fidata».

Nel 2020 attraverso Ciai sono arrivati nel nostro paese 14 bambini e nessuna coppia si è tirata indietro, sottolinea Daniela Russo. Positivi anche i numeri che la Cai (Commissione per le adozioni internazionali) fornisce: dal primo gennaio a oggi sono infatti 176 le adozioni internazionali concluse, corrispondenti a 209 minori. E di coppie come Monica e Anthony, volate all’estero e ancora lì, ce ne sono altre.

«È stato un lavoro certosino riuscire a mettere insieme i numeri», precisa Pietro Ardizzi, a capo del coordinamento Oltre l’adozione che raduna 11 enti, da Avsi a Nova, all’Istituto La casa, per citarne solo alcuni. «Stiamo seguendo 15 coppie e questo è possibile solo se c’è collaborazione tra chi le assiste, le ambasciate, i consolati italiani e le autorità straniere. Come enti abbiamo chiesto al ministro della Salute Roberto Speranza di poter vaccinare chi va all’estero, anche se poi come nel caso della Cina ci sono paesi che accettano solo chi è vaccinato con i loro preparati. In questi casi l’unica possibilità è attendere tempi migliori, ma per le coppie che provengono già da un iter adottivo può essere motivo di stress. I due genitori hanno iniziato un lungo percorso adottivo e hanno in mano la foto del figlio, e chi spiega loro che i tempi all’improvviso non sono maturi per portarlo a casa?».

In questa situazione occorre dunque avere parecchia fortuna perché, come spiega Ardizzi, dipende molto dall’andamento dei contagi nei singoli Paesi. «Brasile e India – cita come esempi – con la disastrosa situazione sanitaria stanno ritardando le pratiche per non mettere a rischio nessuno. In Paesi come Colombia, Perù e Bolivia procediamo invece con il contagocce, mentre la Federazione russa sta pensando a visti speciali a seconda delle situazioni. Spesso procedere caso per caso richiede una grande pazienza. E la bella storia di Monica, Anthony e Pravithra rappresenta una boccata d’ossigeno».

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