
«Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito». Una delle più citate frasi di Antoine de Saint-Exupéry ci aiuta a entrare dolcemente in un argomento interessante per le aziende e con radici profonde nella filosofia: il rapporto fra libertà e responsabilità. Se vuoi costruire una barca, assegni precise responsabilità a ciascuno dei tuoi uomini o concedi loro libertà di pensiero, azione e produzione? E ancora: le due cose sono inconciliabili, alternative, opposte? Ma soprattutto: è sempre possibile fare questa scelta?
Parlare di libertà in azienda significa pensare subito allo smart working, alla possibilità di ideare e seguire progetti propri, allo spazio per prendere decisioni o cambiare qualche processo in corso. Tutte cose che però si collocano in certi tipi di lavoro e non in altri: il chirurgo non fa smart working e nemmeno il farmacista, non lo fa il corriere, non lo fa l’operaio in linea di produzione, per esempio. Quest’ultimo non ha nemmeno la possibilità di seguire progetti propri o di prendere grandi decisioni. Un impiegato allo sportello di una banca non può modificare una procedura a suo piacimento, pensando di migliorarla. Lo spazio di libertà è oggettivamente stretto in molti tipi di lavoro, se non inesistente, e per qualcuno può anche essere preferibile: significa più sicurezza, più protezione, meno preoccupazioni.
Stiamo parlando, ovviamente, del lavoro dipendente, in cui di solito, per aumentare i livelli di responsabilità e di libertà, occorre scalare i livelli nell’organizzazione. Interessante anche la parola “dipendente”, che si usa per chi non è un lavoratore “autonomo”, cioè che decide le proprie regole: diciamo dipendente di un’azienda, ma diciamo dipendente da qualcuno, perché chi lavora in un’azienda non ne è dipendente oltre la misura delle proprie responsabilità, appunto, mentre l’infante è dipendente dalla mamma in tutto e per tutto. Il dipendente dell’azienda è libero di andarsene, se trova altre opportunità, mentre l’azienda è dipendente da ogni suo impiegato, almeno per la funzione e l’ambito di sua competenza.
Dunque, si potrebbe dire che vi è una interdipendenza fra azienda e lavoratori, pur con i distinguo di potere, evidenti a tutti, nei diversi livelli della gerarchia. Ne consegue che vi è una corresponsabilità fra colui che dà il lavoro (datore) e colui che lo presta (il prestatore d’opera), poiché ciascuno si impegna per parte propria a onorare il contratto alla base di quel rapporto. In questa cornice, per cui oggi si parla sempre più di “collaboratori” e sempre meno di “dipendenti”, ognuno può provare a prendersi i propri spazi di libertà. Questo nel mondo ideale. In quello reale, esiste davvero, nelle aziende, la libertà di prendersi la responsabilità? O è sempre un’opportunità che viene dal contesto, se non concessa dal livello superiore, cioè da chi detiene la leadership? Ma se la leadership è «la capacità di far accadere cose significative attraverso e con altre persone», secondo la definizione di Alex Budak, nel suo Changemakers (Ayros Editore, in libreria a giorni), allora essa è alla portata di tutti e tutti possono guidare un cambiamento. Per fare ciò, prosegue Budak, occorre che impariamo a darci il permesso di farlo, senza aspettare che qualcuno ce lo dia. E ancora sorgono domande: fino a che punto è possibile spingersi nel prendersi il permesso? Libertà e responsabilità implicano un limite e un controllo? Un principio d’ordine, in un’azienda come in uno Stato, va trovato necessariamente, sia esso verticistico, condiviso, distribuito, rappresentativo o come si voglia. La domanda è se si possa davvero governare la nave tutti insieme o se sia solo retorica. Per i Greci, da Eschilo a Platone, la polis è come una nave che necessita di essere pilotata con capacità, che non tutti hanno, quindi va affidata ai migliori. Raimund Popper, ne La società aperta e i suoi nemici mette in dubbio questo assioma (chi decide chi siano i migliori?) e s’interroga proprio sui possibili sistemi di controllo, di correzione degli errori e di rotazione del potere. La sfera dell’agire collettivo, sostiene Hans Jonas, oggi è enorme, complessa (siamo nell’antropocene) e attraversata da molte forze, per cui «impone all’etica una nuova dimensione della responsabilità, mai prima immaginata». Forse tutti dobbiamo prenderne in carico una parte, qualsiasi sia il nostro ruolo nel lavoro o nel mondo.
Viene in mente la storia dei tre spaccapietre, sudati e stanchi, interrogati da un pellegrino sul loro lavoro. Il primo risponde: «Non vedi? Mi sto ammazzando di fatica», il secondo: «Lavoro da mattino a sera per mantenere mia moglie e i miei figli» e il terzo, indicando il grande cantiere davanti a loro dice: «Sto costruendo quella cattedrale». Il primo passo è il recupero della dimensione di senso del lavoro, chiedersi perché lo si faccia, che senso abbia per noi e per il mondo, se ne ha. Da ciò discendono la libertà e la responsabilità che decideremo di prenderci.
Filosofia in azienda/3