giovedì 16 marzo 2023
Secondo Niessen si è solidificata, nel tempo, una tendenza che ha schiacciato lo sviluppo simbolico urbano attorno ad un’unica direttiva: quella del decoro.
Una città che ci metta scomodi ma creando comunità

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Dando prova di un’incredibile agilità, lo scimmione scala l’Empire State Building a New York. Qui, issatosi sulla punta dell’edificio, urlante e terrificante, King Kong – non prima di aver liberato la “bella” che stringeva in un pugno, esibendo un’inaspettata tenerezza – ingaggia un duello con una flotta di aerei giunti per abbatterlo. Allo scimmione riesce persino di acciuffare qualcuno di quei ronzanti apparecchi. Ma si tratta di una vittoria effimera: colpito a morte, precipita nel vuoto. King Kong simboleggia l’ultima eruzione di una natura incontrollabile e indomita, primigenia e oscura, sconfitta dalla tecnologia che nelle fortezze volanti trova uno dei suoi simboli più potenti. La battaglia tra i due mostri – tra il grattacielo e lo scimmione, tra il gigantismo verticale del segno umano e la natura come ricettacolo del primitivo – si conclude con il trionfo del primo. Come ha scritto Antonino Terranova, con King Kong ha inizio «la storia della reciproca esaltazione simbolica dei grattacieli e dei mostri o supereroi dell’immaginario».

La città, in realtà, ha sempre flirtato con l’immaginario della catastrofe. Cinema, fumetto, arte hanno fatto a gara a fantasticare la distruzione della metropoli, periodicamente fatta a pezzi, sventrata, bruciata, sommersa da mostri, alieni, uragani, eruzioni, cataclismi di ogni genere. Questa estasi funeraria, come l’ha chiamata Mike Davis, ha velato la trasformazione – questa sì, reale – che ha cambiato radicalmente il volto (e le funzioni) della città occidentale: la deindustrializzazione che, come scrive Bertram Niessen nel suo Abitare il vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo (Utet, pag 256, euro 19), ha aperto nel tessuto urbano, simili a crepe, crateri, smagliature, «spazi non determinati e porosi, aperti alla possibilità». Smarrita la sua vocazione industriale, migrate dal suo tessuto le grandi fabbriche novecentesche, la città è stata costretta a reinventare la sua identità e ridisegnare la sua economia non più sulla produzione ma sul terziario, quel bricolage di servizi e attività che ruota attorno alla conoscenza. Spazi abbandonati, scheletri di fabbriche, capannoni in disuso sono però rimasti a bucherellare la superficie urbana: la città ha finito per inglobare, al suo interno, una sorta di cimitero industriale. Che fare di questi spazi? Come reinventarli? A cosa destinarli? Quali identità essi sono in gradi di rispecchiare? È iniziata così la trasformazione del volto urbano, con la città divenuta, scrive Niessen, «un campo da gioco di cui riappropriarsi collettivamente». Per afferrare questa attitudine, suggerisce lo studioso, è necessario però un salto epistemologico. La città non va pensata come qualcosa di fisso, stabile, fermo, inchiodato a una vocazione immodificabile. Al contrario, essa è un organismo mobile, fluido, il cui perimetro è continuamente sfidato e ridefinito dai flussi: dai flussi fisici delle persone che la abitano o la attraversano a quelli virtuali dei dati, a quelli, infine, dei significati simbolici. La città è prima di tutto una macchina di senso, un contenitore semiotico con il quale siamo continuamente chiamati a fare i conti (e a costruire). «La città – argomenta Niessen – è solo in seconda istanza fatta di edifici, di asfalto e di strade. Prima di tutto, la città è fatta di persone che fanno cose assieme. La città non è data: la città si fa».

Ma cosa accade alla città quando essa è costretta a fermarsi? Quando sperimenta quella sorta di grado zero delle sue possibilità che è il rimanere ferma, svuotata dei flussi che la costituiscono? Quando, con il Covid, si è prodotto il «congelamento prolungato di una delle caratteristiche fondative della vita urbana: il movimento» e, con esso, l’ammutinamento della socialità, azzerata dalla necessità di fermare la diffusione di un virus? Il vortice si è arrestato. La città si è fatta immobile, costretta a una immobilizzazione forzata, infilzata – scrive l’autore – da una sorta di «collasso sociospaziale». La pandemia ha risolto la tensione che sempre elettrizza i due poli della nostra vita, la strada e la casa, a tutto favore della seconda: «La casa è divenuto lo spazio in cui si è compressa quasi tutta l’esperienza quotidiana». Quali cicatrici ha lasciato nel corpo della città l’esperienza del lockdown? Come può essa recuperare l’attitudine alla trasformazione, alla polisemia, all’incontro, all’ibridazione che costituisce la sua vocazione più segreta?

Secondo Niessen si è solidificata, nel tempo, una tendenza che ha schiacciato lo sviluppo simbolico urbano attorno ad un’unica direttiva: quella del decoro. La città rischia di essere assoggettata all’istanza «totalitaria» del decoro, dell’ordine, del nitore, del disciplinamento dei corpi che la abitano e attraversano. Il vortice si appiattisce. Da epicentro del cambiamento, anche traumatico, anche incontrollabile, la vita urbana rischia di scadere a semplice prolungamento dell’esistente, a immobilità mascherata per cambiamento. Come rompere, allora, questa stasi? Come restituire alla vita urbana il suo potere simbolico, il suo potere di dar vita a significati nuovi?

La ricetta di Niessen passa per il recupero di una «cultura del disordine» nella quale gli attori sociali, culturali ed economici possano recuperare l’originalità della propria voce, capace di «interferire» attivamente con tutte le altre. «Per le città, aprire la cultura al disordine – e aprire il disordine alla cultura – vuol dire superare la nevrosi del decoro, accettando che le strade, le piazze e gli edifici divengano spazi di presa di parola e di esercizio estetico di individui e gruppi sociali, in particolar modo di quelli più marginalizzati. Abbiamo bisogno di cultura indecorosa e non decorativa, che faccia domande, che sporchi, che ogni tanto non ci faccia dormire e che ci metta scomodi». Un posto abitabile, insomma, anche da King Kong.

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