mercoledì 9 marzo 2022
Elena Granata, docente di Urbanistica al Politecnico: il placemaker è colui che ricuce e riconnetti spazi abitativi e città
La difficile missione degli inventori dei luoghi che abiteremo
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L’archistar e il designer, certo. Ma anche l’impreditore-artista, l’informatico-ambientalista, il politico-pedagogista, l’architetto-giardiniere, e persino il parroco-rivoluzionario che a Norcia dopo aver letto “Placemaker” ha scritto all’autrice per sottoporle il progetto di un campanile orizzontale per risolvere i rischi in una zona sismica. Ecco chi sono gli inventori dei luoghi che abiteremo. Li racconta Elena Granata, docente di Urbanistica al Politecnico di Milano, vicepresidente della Scuola di Economia Civile, esperta di città, ambiente e cambiamenti sociali, in un libro che spiega cosa fanno decine di innovatori urbani non per forza professionisti che stanno ripensando la relazione tra città e natura, tra spazi pieni e vuoti, lavorando sui servizi, le reti, la mobilità, e trasformandoli attraverso una visione dei luoghi che alla fine risulta profondamente etica.

Lei professoressa Granata, ricorda che il 2020 oltre al Covid è stato l’anno di un altro evento epocale, quello in cui in cui la massa dei materiali prodotti dall’uomo ha superato la biomassa vivente, rappresentata dal mondo animale e vegetale. Che conseguenze dovrebbe avere questo fatto sul lavoro di un inventore dei luoghi? La comunità umana è ingombrante e infestante, perché realizza tantissime cose distruttive per il pianeta. Per questo la figura degli urbanisti, degli ingegneri e degli architetti che sono i costruttori del mondo, è quanto di più inadeguata ci sia in un contesto che invece va destrutturato, decostruito e dal quale va tolta materia artificiale per restituire al sistema materia naturale, connessioni e intelligenza. Abbiamo un problema di senso, e di funzionamento del mondo che noi stessi abbiamo costruito. Per questo servono persone che capiscano che bisogna restituire logica e funzionamento alle città e alle periferie, recuperando aree abbandonate. Il placemaker è proprio colui che ricuce, e riconnette spazi abitativi e natura.

Lei sostiene che se ci fosse un nuovo Leonardo da Vinci oggi saremmo spiazzati dalla sua creatività… Esattamente, perché ora abbiamo bisogno di figure ibride, capaci di regia, di visione e immaginazione. Ma tutti i percorsi culturali e le professioni operanti nel nostro contesto sono fondamentalmente monoteiste e monotematiche. Abbiamo ingegneri, architetti, geometri e designer incapaci di tenere insieme la dimensione ambientale con quella sociale, culturale ed economica. Quindi paradossalmente se avessimo un nuovo Leonardo capace di applicare insieme intuito e capacità tecnica, visione e immaginazione, forse lo riterremmo inadeguato a dare le risposte giuste.

Lo “specialismo” dunque ha generato più danni che benefici? La capacità di tenere insieme l’interesse per la poesia e l’ingegneria, la creatività intesa come competenza artistica e la dimensione economica, è decisiva. L’esempio migliore è quello dei programmi dei laboratori del MIT di Boston, che è il gotha della cultura americana, dove si sviluppano competenze che riassumono e comprendono la varietà delle potenzialità dell’essere umano.

Un’altra affermazione che cito da “Placemacker”: bisogna fare in fretta, ripartire dai luoghi dell’educazione e della formazione scolastica, superare i pregiudizi che rendono il nostro Paese stanco e rassegnato. Ma è davvero così? Sì, perché investiamo pochissimo nei luoghi di formazione. Nei momenti più duri della pandemia, la scuola è stata trascurata non soltanto perché ai ragazzi è stato imposto di restare a casa più a lungo rispetto ad altri Paesi europei, ma soprattutto perché non abbiamo capito collettivamente che non possiamo riproporre lo stesso modello che c’era prima del Covid. Dalla disposizione delle aule a forma di scatole chiuse alla struttura della formazione, è tutto inadeguato a generare quella “testa ben fatta” di cui parla Edgar Morin, cioè persone creative e capaci di stabilire connessioni. Non possiamo immaginare una politica, un’economia e un’urbanistica civile se non diamo risposte alle nuove generazione di cui ci chiedono conto. È paradossale che nel mio libro in cui parlo di crisi climatica, di urbanistica e di città, poi il senso fondamentale è che tutto parta da qui. Dalla scuola intesa non come edificio e in senso tecnico, ma luogo dove ci si educa all’alterità, alla differenza, alla cittadinanza e ovviamente all’intelligenza collettiva.

Alcuni economisti illuminati ritengono necessario che l’economia riparta dai beni comuni, dall’ambiente, dal capitale umano e relazionale che generano l’economia reale, quella delle persone e dei luoghi. E gli architetti invece? Gli architetti hanno un ruolo identico. Il fatto che una Scuola di Economia Civile, quella nata da Stefano Zamagni, Luigino Bruni e Leonardo Becchetti abbia scelto come vicepresidente un’urbanista significa che tenere insieme economia e luoghi, comunità e immaginazione, è la vera sfida per ribaltare la visione economica classica, dove i luoghi erano invece la piattaforma sulla quale si scaricavano gli impatti peggiori dell’economia.

Tornando al Covid, spesso sono le crisi a innescare i cambiamenti più profondi liberando il desiderio di un cambiamento radicale. È possibile che la pandemia lasci qualcosa di positivo? Il cambiamento c’è già stato, nelle persone e nei comportamenti, o almeno nelle ambizioni. Lo vediamo nell’abbandono delle grandi aziende, nella scelta di molti di andare a vivere fuori dalle grandi città, nella poca voglia di tornare a lavorare in ufficio, nella forte domanda ambientale dei giovani. Qualcosa si è rotto dentro di noi e non siamo più disponibili ad accettare il modo di vivere che accettavamo fino a due anni fa. La
questione è come si trasformano in progetto politico questa insofferenza e questa domanda di relazioni, di natura, qualità. Le parole per farlo sono rigenerazione, connessione, scuola: un lavoro che durerà decenni.

Lei sostiene che nostre città sono disegnate partendo dalla sola dimensione spaziale, invece hanno a che fare più con il tempo che con lo spazio…Basta pensare alla rivoluzione che ha comportato lo smart working. Sono scomparsi o stanno scomparendo i luoghi fisici di lavoro e il pendolarismo, e questo resterà anche con il ritorno alla presunta normalità al termine dell’emergenza. Noi ora siamo chiamati a riorganizzare la vita delle persone in luoghi diversi da prima. Sono cambiati gli orari del traffico e i ritmi di vita, e a questi la città deve adeguarsi. Milano, per fare un esempio, ha perso il 2,9% di residenti nell’ultimo anno: dove sono andati, come vivono, quando tornano in città e per quale motivo? Serve capirlo, e serve una politica dei tempi.
La 'città del quarto d’ora': utopia o necessità?

È una realtà che in Italia abbiamo già, ed è lo stile di vita delle 150 'città medie', che sono la struttura portante del nostro Paese. A Bergamo, a Lecce, ad Ascoli Piceno, tutto è già intorno a noi in un
quarto d’ora a piedi o in bicicletta. C’è la nostalgia, o il desiderio, di una dimensione di prossimità e di comunità vicino a casa che svela un bisogno relazionale più che di politica urbana. Il
problema è che questo non è ancora un tema pubblico. E qui entra in gioco il placemaker, che non è necessariamente un tecnico, ma una figura di volta in volta diversa, dal sindaco illuminato al parroco di
periferia, che si fanno carico di risolvere i problemi che impediscono il benessere sociale.

Che senso ha parlare di svolta green in Europa se il resto del mondo continua a inquinare?
La risposta è molto complessa. Ho lavorato per due anni nello staff del G20 della Presidenza del Consiglio sui temi della sostenibilità, e ho verificato direttamente cosa sia un negoziato internazionale su
argomenti ambientali, quanto sia difficile mettere intorno a un tavolo Paesi che hanno economie e gradi di sviluppo diversi che si rinfacciano colpe che invece sono oggettive. Però c’è una nuova sensibilità
diffusa, ed è a questo senso di responsabilità a cui dobbiamo aggrapparci.

Lei chiude il libro con una frase di Virginie Raisson: il futuro non sarà mai come lo immaginiamo…
Sarà sempre diverso, certo. E questo è molto rassicurante. Tutte le volte che dipingiamo scenari apocalittici, non teniamo conto del fattore imprevedibilità. Che a volte è una pandemia, ma anche un
risveglio di coscienze come quello della generazione di Greta. Il futuro non è prevedibile, ma per fortuna possiamo starci dentro ed essere attori del cambiamento. C’è una responsabilità civile che ci
chiama, e una curiosità che ci spinge: per questo resto ottimista.

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