mercoledì 26 gennaio 2022
L’esploratrice Catapano partecipa alle missioni Polarquest: le correnti marine portano al Polo rifiuti che distruggono interi ecosistemi
Anche l'Artico invaso dalla plastica

Anche l'Artico invaso dalla plastica

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Il cielo sembra toccare il mare sull’orizzonte estremo dell’isola artica di Lågøya, poche miglia a ovest di Nordautslandet, la terra più settentrionale dell’arcipelago delle Svalbard, oltre l’81° parallelo. L’isola 'bassa' è una distesa infinita di ciottoli deformati: quarzite, carbonati e doleriti formano lunghe strisce variopinte, interrotte da una successione di lagune e laghetti. A sole 600 miglia nautiche dal Polo Nord geografico, i passi dell’esploratrice Paola Catapano, comunicatrice scientifica del CERN, sono stati tra i pochissimi a calpestare la spiaggia dell’isola, sin dai tempi geologici della sua formazione in era proterozoica, oltre 500 milioni di anni fa. La tentazione di raccogliere sassi di forme e sfumature inusuali è grande, come la sensazione di vivere un altro pianeta: un pianeta dalla bellezza solitaria, lugubre, ammaliante. Una grande bellezza ora deturpata da un’altrettanto grande vergogna, in cui la meraviglia dell’incanto lascia posto allo sgomento: «Ogni nostro passo si faceva largo tra corpi alieni, in senso letterale, in quanto del tutto estranei, non appartenenti, ad un’isola così remota, priva di vegetazione e mai abitata, eppure, completamente cosparsa di rifiuti plastici di ogni dimensione, in diversi stati di degrado e conservazione» ricorda Catapano, passando in rassegna i reperti ammonticchiati: coriandoli di microplastiche, secchielli e trenini da spiaggia, bidoni con la scritta (in italiano) 'Non disperdere nell’ambiente', reti da pesca, galleggianti, tubetti di dentifrici di note marche, come bricchi di latte, questa volta con scritte in cirillico. Un mare di plastiche in cui galleggia, onnipresente, legname, sbiancato dall’azione del mare, e tronchi, trasportati dalle correnti, perchè qui alberi non ce ne sono.

Durante la spedizione Polarquest2021 della scorsa estate alle Svalbard è stato condotto un progetto di ricerca teso a rispondere ad un interrogativo di fondo: da dove e come arrivi tanta plastica in luoghi in cui nessuno la produce e la consuma. «Col supporto dell’Istituto Marino (ISMAR) del CNR di La Spezia e la Swiss Polar Foundation, abbiamo raggiunto in barca a vela, per la seconda volta, latitudini artiche oltre l’81° parallelo, per studiare tempistiche, dinamiche di accumulo e origine di plastiche e legnami. Una ricerca in continuità naturale col campionamento della precedente spedizione, Polarquest2018, che ha circumnavigato l’intero perimetro delle Isole Svalbard, raggiungendo le frange esterne della banchisa del Polo Nord, alla latitudi- ne record di 82°07’ nodi» spiega l’esploratrice. In entrambi i casi, le attività di campionamento di micro e macroplastica sono state integrate con la mappatura aerea, condotta negli stessi luoghi con droni commerciali, così da ampliare il database sull’origine delle macroplastiche (attraverso tecniche di intelligenza artificiale) e ha fornito un quadro generale della loro presenza nell’arcipelago artico. Un quadro peggiore alle aspettative: in ognuno dei campioni filtrati dall’acqua di mare sono stati trovati microplastiche e microfibre, detriti visibili a occhio nudo su ogni spiaggia visitata e legname portato dal mare. Perfino sulla banchisa polare è stato raccolto un frammento plastico blu visibile ad occhio. La plastica rappresenta la maggior componente dell’insieme di materiali non biodegradabili sulla Terra: dall’inizio degli anni cinquanta è iniziata la sua produzione massiva, passando da un milione di tonnellate all’anno a 350, con rate di crescita del 3,5% annua. La quantità di plastica oggi in uso sul pianeta è pari al 30% di tutta quella mai prodotta sulla Terra: un successo ininterrotto dovuto alle proprietà chimico-fisiche di un polimero essenzialmente indistruttibile, ottenuto artificialmente da petrolio e gas naturale e dal bassissimo costo di produzione. Le stesse proprietà che rendono questo materiale unico e richiestissimo, ne fanno un inquinante 'eterno'. Le stime più accurate attestano che ogni anno ne finiscono in mare 10 milioni di tonnellate, equivalenti ad una camionata al minuto.

A causa della loro longevità, tali rifiuti viaggiano per lunghissime distanze, trasportati dalle correnti marine, accumuladosi in località remote e disabitate come i Poli, da dove poi nessuno può rimuoverli. «Non si tratta solo di un problema paesaggistico: abbonda la documentazione per centinaia di specie – nell’Artico foche, orsi polari e balene – che ingeriscono enormi quantità di macro detriti plastici o che ne rimangono intrappolate. Una volta assorbite dall’organismo, queste sostanze provocano danni fisici e biologici di ogni tipo, comprese lesioni cellulari e tumori, responsabili della morte di oltre 100mila specie marine all’anno e oltre un milione di uccelli» rimarca Catapano. A questa strage si aggiungano i danni determinati quando le plastiche finiscono in mare, dove degenerano, per l’azione di acqua marina, sole e altri processi fisicobiologici, in microplastiche. «I residui inferiori ai 5 mm, non solo non sono smaltibili, ma sono pericolossimi, una volta ingeriti ed entrati nel flusso sanguigno degli organismi più piccoli, come lo zooplankton, alla base della catena alimentare, minacciando l’esistenza stessa della vita sul pianeta» prosegue Catapano. Le correnti marine, incrociandosi in alcuni punti specifici, formano i cosiddetti 'gyre' oceanici, vere trappole per i detriti, generando zone di accumulo alla stregua di isolotti. «Plastica e microplastica sono già state documentate in ben 5 gyres nei principali oceani terrestri (Pacifico, Atlantico, Indiano) e, fino a poco fa, si ipotizzava l’esistenza della sesta zona in Oceano Artico, in prossimità del Gyre di Beaufort» riferisce l’esploratrice sottolineando che uno degli scopi di Polarquest2018 fu provare l’esistenza della sesta isola di plastica e raccogliere dati relativi ad un’area ancora poco campionata.

L’unicità e la fragilità di un ecosistema scarsamente antropizzato, come quello artico, aggravano le implicazioni ecologiche della presenza di rifiuti plastici, perché rendono complesse e rare operazioni sistematiche di intervento, nonostante sia ormai conclamata l’emergenza planetaria in corso. «Purtroppo, anche alla Conferenza di Glasgow non è stato adeguatamente considerato il dramma dell’inquinamento da plastiche, benché sia tra le perturbazioni umane pervasive a maggior potenziale destabilizzante rispetto al funzionamento e all’equilibrio del sistema ambiente a livello globale. Un peccato, considerando la relativa semplicità delle possibili soluzioni rispetto alla complessità dei cambiamenti climatici». Ad esempio, aiuterebbe eliminarne la produzione, vietare i prodotti usa e getta (pari al 50% dei 380 milioni di tonnellate annue), estendere l’uso di materiali biodegradabili per il packaging e sensibilizzare al consumo responsabile.

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