mercoledì 22 agosto 2018
Economista che lavora in Cina da un decennio, vede nella cooperazione con Pechino la soluzione di tutti i principali problemi del Paese: dai Btp alle pensioni. E sogna più menestrelli e meno ingegneri
Michele Geraci, sottosegretario allo Sviluppo Economico (Foto da Facebook)

Michele Geraci, sottosegretario allo Sviluppo Economico (Foto da Facebook)

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Al ministero dello Sviluppo economico siede un sottosegretario che è un fan di Xi Jinping ed è convinto che l’Italia sbagli a spingere i suoi giovani a studiare ingenegneria invece che fare i menestrelli. Michele Geraci ha 52 anni, vanta una laurea in ingegneria elettronica a Palermo, un master in business administration al Mit di Boston con Franco Modigliani, anni nelle banche d’affari e poi un decennio in Cina, dove è responsabile del programma cinese dell’università di Nottingham e docente aggiunto di finanza sia alla sede di Shanghai della New York University che all’università di Zhejiang. A sentire quello che pensa, però, Geraci sembra un ambasciatore del governo cinese.

In un’intervista data a Claudio Messora, ex portavoce cinquestelle, Geraci argomenta con il suo accento palermitano la democraticità del regime di Pechino. «Da noi prima si scelgono i nostri rappresentanti e poi si spera che facciano quello per cui sono stati eletti e poi eventualmente li si rivota o si rivota altri. Qui no – spiega l’economista –, il Partito Comunista sceglie chi sarà al governo interpretando il desiderio della popolazione e adotta politiche economiche e sociali in modo che la popolazione sia contenta e non faccia, tra virgolette, una rivoluzione». Certo, c’è qualche limite alla libertà, però è un problema nostro, che guardiamo al mondo secondo valori occidentali, perché «alla fine si parla sempre di differenze culturali, il pensiero, l’illuminismo, i diritti, la libertà di parola... fondamentalmente al cittadino medio cinese interessa svegliarsi la mattina, andare a lavorare e avere dei soldi per mandare il figlio a scuola». È anche vero che in Cina l’informazione è tutta sotto il controllo rigido del regime, però, insomma, anche qui la questione «ha una doppia faccia: da un lato è bello sapere tutto quello che succede al mondo però qui la società dove la stabilità della nazione conta più della stabilità o della felicità dell'individuo». E chi non è d’accordo con il regime comunista? «C’è una minoranza, ma sparutissima, di persone che non sono contente, che vorrebbero riforme, ma fondamentalmente, qui mi metto il cappello da sociologo, non da economista, riforme per far cosa? Se io qui fossi il primo ministro o il ministro dell’Economia farei le cose che fanno».

Invece Geraci ora non è “lì”, ma “qui”, in Italia, dove lunedì gli è stata affidata la guida della “Task Force Cina” al ministero guidato da Luigi Di Maio. Da lì ha intenzione di mettere in pratica il piano già illustrato sul blog di Beppe Grillo a giugno, due giorni prima di ricevere la nomina. La Cina, secondo il sottosegretario, può essere la soluzione a quasi tutti i nostri problemi. Pechino difatti può non solo comprare i prodotti made in Italy, ma anche, nell’ordine: acquistare i nostri Btp; insegnarci a gestire l’immigrazione; investire per potenziare gli effetti della flat tax; insegnarci a gestire l’ordine pubblico; guidarci verso una svolta green; costruire le nostre infrastrutture; mostrarci come salvare l’Africa; imparare da noi a gestire i problemi demografici.

Ma soprattutto, e qui sta probabilmente il capolavoro politico di Geraci che gli ha portato la nomina al ministero, la Cina dà un senso al reddito di cittadinanza. Sempre sul blog di Grillo, ad aprile, il futuro sottosegretario spiegava come fosse impossibile difenderci dall’invasione dei prodotti cinesi: le fabbriche di Xi produrranno e ci venderanno tutto. Che fare, dunque? «La nostra unica possibilità è legata alla valorizzazione delle nostre competenze sostenibili, quali arte, pensiero, cultura, storia che, così come è stato nel rinascimento, possono essere da supporto ad una nuova ripresa del nostro paese».

In concreto, distribuendo 780 euro a testa agli italiani che hanno perso la speranza, si può «dare libertà a queste forze creative e liberare l’individuo dall’assillo dello stipendio come mezzo di sostentamento, perché un sistema produttivo che spinge tutti i giovani a studiare solo finanza, ingegneria ed altri mestieri utili ci porta in quell’imbuto competitivo dove la Cina ci schiaccerà». Eliminato l’impiccio di dovere lavorare per vivere, gli italiani potranno dedicarsi all’arte e al pensiero, e se solo uno su mille diventerà un grande artista il costo varrà comunque la spesa, perché il reddito di cittadinanza va visto come «una ricompensa ex-ante per quei 999 che non avranno mai un successo economico ma che il loro input, anche indiretto, servirà a quell’uno su mille che poi ce l’ha fatta».

Tanto non costa quasi niente. Perché il prezzo di una manovra simile «non importa, è un debito che lo Stato contrae con i propri cittadini, una semplice riallocazione contabile, come il gioco delle tre carte, se servisse del bridge-financing, basterebbero i mini-bot di Borghi». Insomma, possiamo stare tranquilli.




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