lunedì 15 luglio 2013
Per il numero uno della Fondazione Cariplo: «La scarsa incisività dei trasferimenti non previdenziali, erogati a pioggia e con ampi margini di discrezionalità, richiede una nuova integrazione degli attori e dei finanziamenti. Spesso anche la spesa privata è poco efficiente».
COMMENTA E CONDIVIDI
Una crisi economica pesantissima, che si protrae da troppo tempo. Il debito pubblico che ha sfondato quota 2.000 miliardi e continua a crescere. E un Paese sempre più vecchio. Tre ingredienti di un cocktail micidiale per il sistema italiano di Welfare, una fra le più belle architetture sociali del nostro Novecento. Per questo Giuseppe Guzzetti, presidente Acri e Fondazione Cariplo, inserisce la rimodulazione dello Stato sociale fra le urgenze del Paese. «Non solo per ragioni di costo – spiega –, ma soprattutto per rendere il sistema italiano dei servizi sociali più capace di affrontare le nuove sfide che si presentano al Paese. Per tornare a pensare il Welfare come un fattore propulsivo del nostro sistema economico e sociale e non come una zavorra».Eppure c’è stato un tempo non remoto in cui proprio il nostro sistema di Stato sociale era considerato un modello da seguire anche per altri Paesi, non solo europei.Vero, ma i "rischi sociali" a cui tale sistema tenta di rispondere sono molto cambiati negli ultimi vent’anni: l’invecchiamento della popolazione, la caduta della natalità, l’impatto della "globalizzazione" sul mercato del lavoro e la forte immigrazione, per citare i principali, sono tutti fattori che hanno contribuito a cambiare le condizioni senza che il Welfare pubblico abbia ancora prodotto risposte adeguate.A tutto questo si è aggiunta la crisi più grave dal 1929. Con il ricorso massiccio, in Italia, a uno degli ammortizzatori sociali di cui in realtà il sistema dispone, la cassa integrazione, ma che sembra avere il fiato corto.Gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno messo in evidenza l’insufficienza degli strumenti italiani di lotta alla povertà, stante la scarsa incisività dei trasferimenti monetari non previdenziali, modesti nell’ammontare, erogati a pioggia e con ampi margini di discrezionalità, spesso senza progetti di accompagnamento all’autonomia. Proprio la crisi ha poi mostrato i possibili effetti distorsivi degli strumenti di protezione sul mercato del lavoro, a partire dalla Cassa in deroga: questi strumenti tendono a proteggere i posti di lavoro, anche quando non ha più senso difenderli, impedendo così una più rapida riconversione del sistema produttivo e sottraendo risorse a possibili misure di protezione dei redditi. Specie dei soggetti, come i giovani, che faticano a entrare nel mercato e pertanto rischiano di restare privi di ogni protezione.Difficile però intervenire quando la coperta è corta: basti pensare alle capriole che sta facendo il governo per risolvere i «nodi» Iva e Imu…Sono necessarie misure che favoriscano una ricalibratura del sistema. Che re-indirizzino cioè i finanziamenti verso i nuovi rischi sociali (la povertà, la disoccupazione, la non-autonomia) e mobilitino tutte le risorse disponibili del Paese, in primo luogo quelle delle singole persone, così da renderle in grado di guadagnare il massimo grado di autonomia possibile.Per il sistema di welfare a finanziamento pubblico quali sono i primi problemi da affrontare?Il sistema ha davanti due sfide cruciali: lavorare sull’efficienza dei meccanismi di produzione dei servizi, così da contenerne il più possibile costo, e misurare l’efficacia delle prestazioni e dei servizi, spesso stratificati nel tempo e poco incisivi nel raggiungere risultati concreti con gli utenti. Ma una sfida importante è anche quella dell’integrazione degli attori e dei finanziamenti: la spesa privata in campo sociale, infatti, è male organizzata e spesso poco efficace. Basta pensare al fenomeno delle badanti.Anche le aziende più virtuose, stimolate forse dalla crisi stessa, stanno mettendo a punto dei piani interni di Welfare, che talvolta suppliscono quello pubblico. Non si rischiano però dei doppioni?Purtroppo sono spesso dispersi anche gli interventi che oggi chiamiamo di "secondo Welfare". E che vanno dal welfare aziendale, al neo-mutualismo sino alla filantropia e al terzo settore. Eppure potrebbero rappresentare una risorsa importante per integrare le prestazioni pubbliche e, soprattutto, per modularle adeguatamente a livello locale in un sistema plurale di Welfare territoriale.La parola chiave, insomma, è integrazione. O meglio: sussidiarietà.Una collaborazione più proficua tra sistema a finanziamento pubblico e attori privati è non solo auspicabile ma necessaria, per evitare di limitarsi a utilizzare il Terzo settore per abbassare i costi delle prestazioni pubbliche senza coglierne invece il potenziale di innovazione. E per contenere poi i problemi di iniquità impliciti nel welfare aziendale, per definizione limitato a pochi soggetti destinatari.Che ruolo giocano o possono giocare in questa "filiera" le Fondazioni?Le Fondazioni di origine bancaria sono parte di questo sistema integrato. Per ragioni di risorse e di legittimazione, non sono la risposta alle nuove sfide del welfare. Possono però contribuire aiutando l’innovazione, permettendo sperimentazioni, costruendo cultura tecnica e amministrativa, favorendo le reti.In quali ambiti? Con quali sfide?La prima sfida è legata all’integrazione dei giovani nel sistema sociale ed economico del Paese. Che passa innanzitutto dal miglioramento della qualità del nostro sistema di istruzione e di formazione del capitale umano. Su questo tema le nostre fondazioni sono fortemente impegnate e ancora di più lo saranno in futuro. La seconda sfida è quella di coniugare principi generali validi per l’intero territorio nazionale e specificità locali, in una declinazione che sappia valorizzare le diverse risorse presenti nei territori. La terza sfida, infine, è quella dell’adozione di logiche graduali e sperimentali, che sappiano partire da esperienze promettenti, siano in grado di valutarne con precisione pregi e difetti e si propongano di estendere quelle esperienze su scale più ampie. Anche qui le Fondazioni, forti della loro maggiore flessibilità rispetto all’ente pubblico, possono giocare un ruolo importante nel definire e attuare una "filiera delle politiche" in campo sociale, in maniera complementare ad altri soggetti pubblici e privati.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: