Più cura tra le competenze manageriali

Gentilezza e rispetto possono convivere con le esigenze di produttività e profitto delle aziende. Un libro di Riccarda Zezza spiega come è possibile
October 8, 2025
Più cura tra le competenze manageriali
Riccarda Zezza, fondatrice di Lifeed/ WEB
«La cura, la gentilezza e il rispetto non solo possono, ma devono convivere con le esigenze di produttività e profitto delle aziende: è l'unica strada percorribile per la sostenibilità e per avere un futuro. Sebbene la dicotomia tra cura e lavoro abbia storicamente privilegiato il lavoro e l'efficienza a scapito della cura, generando una tensione insostenibile per la società umana, oggi sappiamo che la cura genera benefici anche in ambito economico e organizzativo». In un momento in cui il lavoro cambia volto, Riccarda Zezza – fondatrice di Lifeed – torna con un nuovo libro dal titolo emblematico: Cura (FrancoAngeli). Il volume analizza il potenziale della cura come leva di performance sostenibile e propone un nuovo modello di leadership capace di integrare efficienza e umanità. Un testo pensato per chi guida persone e aziende, con esempi concreti e il metodo proprietario Life Based Learning, già adottato da oltre 100 realtà in Italia e all’estero. Riccarda è anche co-autrice di MAAM. La maternità è un master, in cui teorizza per la prima volta il fatto che la genitorialità permetta di acquisire una serie di competenze di estrema utilità anche sul piano lavorativo, al pari di un master. Un esempio concreto? Ricerche come quelle di Mazzarelli e Trzeciak in Compassionomics dimostrano che la compassione in ambito sanitario ha effetti significativi e benefici sui pazienti, tra cui miglioramenti fisiologici e psicologici, oltre a promuovere la cura di sé del paziente e aumentare la qualità delle cure. Un medico compassionevole è più scrupoloso e meno incline a commettere errori medici gravi. Questo suggerisce che la cura non è solo etica, ma produce risultati tangibili e vantaggi economici. Avviene perché la cura è una chiave di sopravvivenza per la nostra specie e l'unica strada percorribile per la sostenibilità. Integrare cura, gentilezza e rispetto nelle aziende non è solo una questione etica, ma una necessità strategica per prosperare nel lungo periodo, trasformando le relazioni lavorative da "gioco a somma zero" a modelli di "risorse espandibili". Tuttavia, per raggiungere questa convivenza, è necessario accettare il rischio di stravolgere le regole esistenti, sfidare gli stereotipi e i pregiudizi, e promuovere un cambiamento culturale che riconosca il valore e l'impatto della cura.
«Io credo che il lavoro possa e debba essere trasformato attraverso la cura e che questa trasformazione sia non solo possibile, ma necessaria per la sostenibilità e per il futuro della nostra specie - spiega Zezza -. Pur riconoscendo che la Costituzione italiana pone il lavoro al primo articolo e fa richiami alla dignità e all'inclusione, storicamente il lavoro è stato spesso contrapposto alla cura in una dicotomia che ha generato una tensione insostenibile per la società umana. La mia esperienza personale, quando mi sono sentita estranea, o addirittura nemica degli interessi delle organizzazioni a causa del mio essere madre, esemplifica questo conflitto, dando un esempio di come il mondo del lavoro abbia sistematicamente "buttato via" la cura. Tuttavia, questo modello è profondamente errato e reimmettere la cura nel lavoro è fondamentale per diversi motivi. Ne cito tre. Il primo è biologico: la capacità di cura è alla base della sopravvivenza della nostra specie. È l'unica strada percorribile per la sostenibilità e l'unica che ci dia un futuro. La cura ci rende forti e ci fa vivere meglio: non usarla comporta uno sforzo. Il secondo è culturale: la cura è il primo essenziale passo di inclusione. Vedere una persona in tutta la sua complessità, oltre gli stereotipi, permette di valorizzare la sua diversità e le sue molteplici dimensioni identitarie. In culture aziendali "sane", gli interessi extralavorativi diventano alleati che generano passione e riportano energia extra in azienda, al contrario delle "burnout cultures" che esauriscono le risorse. Il terzo riguarda lo sviluppo umano: l'esperienza della cura (genitorialità, caregiving) sviluppa competenze fondamentali come empatia, ascolto, comunicazione, pazienza, problem-solving, capacità di negoziazione, flessibilità e gestione della complessità. Oggi, grazie al lavoro fatto con oltre 70.000 persone nell’arco di dieci anni, abbiamo dimostrato che queste competenze, così difficili da acquisire in aula, vengono intensamente allenate nei contesti di cura. Io credo che sia giunto il momento di una "rivoluzione culturale" che stravolga le regole esistenti e permetta alla cura di contaminare il mondo del lavoro. Questa trasformazione non riguarda solo le donne o i caregiver, ma interessa l'umano nella sua interezza, consentendo a ciascuno di portare il proprio "sé intero" nel lavoro, arricchendolo di nuove prospettive e rendendolo più adatto a tutti e più pronto al futuro. È un modo per "riumanizzare" il lavoro e dargli un senso più profondo, in linea con i valori di dignità e inclusione impliciti nella nostra Costituzione».
La crisi della cura è in fondo una crisi di senso. Non mettere cura nel lavoro significa non riuscire ad attribuirvi un significato che vada oltre il mero guadagno materiale, riducendolo a un gesto meccanico. Tuttavia, gli esseri umani non sono macchine e hanno sempre bisogno di dare e ricevere cura. Questo implica un fondamento etico profondo per l'integrazione della cura nel lavoro. Oggi è evidente che la retribuzione, un tempo leva principale, è diventata meno efficace nel trattenere le persone, che ora cercano flessibilità, benessere e tempo, beni che "i soldi non possono comprare direttamente". I contratti chiariscono le responsabilità dei lavoratori verso l'azienda, ma la responsabilità relazionale è spesso assente o attribuita solo ai manager, trattando i collaboratori come adolescenti piuttosto che adulti responsabili. D’altra parte, i manager spesso percepiscono un conflitto tra la logica economica e quella umana. Un manager, spinto dal sistema, può considerare le persone "uno strumento" da curare solo se funzionale agli obiettivi aziendali, non per il loro benessere intrinseco. Tuttavia, come esseri umani, i manager hanno la propria morale e valori e desiderano prendersi cura degli altri "a prescindere" dal loro ruolo. Al di là di leggi e contratti che tendono a creare "gabbie" e a misurare solo il misurabile, è fondamentale un cambiamento etico profondo. Questo richiede che tutti gli attori, e in particolare gli imprenditori e i leader, riconoscano il valore intrinseco della cura e la integrino come principio guida, non solo per benefici economici (che pure esistono e sono dimostrati), ma come un imperativo per la sostenibilità umana e per dare un senso autentico al lavoro, che è il nostro modo di prenderci cura del mondo.
Diverse buone pratiche mettono al centro la cura, sia a livello individuale che organizzativo, con l'obiettivo di trasformare il mondo del lavoro rendendolo più umano, efficace e sostenibile.  Pensiamo per esempio a un ambito sfidante come quello dell’apprendimento continuo: qui la cura innesca la "transilienza", una metacompetenza che permette di trasferire competenze e risorse emotive da un ruolo di vita all'altro, per esempio dalla famiglia al lavoro e viceversa. Attraverso il metodo dell'"apprendimento basato sulla vita" (Life Based Learning) ideato da Lifeed, si riconoscono e valorizzano le competenze acquisite in contesti di cura, come la genitorialità o il caregiving, per applicarle in ambito professionale. Competenze come ascolto, empatia, problem-solving, pazienza, flessibilità e gestione della complessità vengono intensamente allenate nella cura e sono preziose nel lavoro. Un esempio concreto è una donna che impara a prevenire e sviare i capricci dei figli, applicando poi questa abilità con "capi capricciosissimi". La capacità di delega, spesso allenata per necessità nella maternità, si rivela fondamentale anche in azienda. Anche in direzione opposta, competenze cognitive come la gestione della complessità e dell'incertezza o il pensiero critico possono essere trasferite dall'ambito lavorativo a quello domestico, aiutando a razionalizzare le emozioni e a prendere decisioni più efficaci anche in famiglia. In sintesi, le buone pratiche che ho in mente non sono progetti isolati, ma un insieme di approcci culturali, comportamentali e metodologici volti a integrare la cura come risorsa strategica e valore etico fondamentale nel mondo del lavoro, riconoscendo il suo potere trasformativo sull'individuo, sulla leadership e sull'organizzazione.
Diversi studi e ricerche dimostrano che ambienti accoglienti rendono il clima lavorativo più sereno e migliorano la produttività. Lo conferma la stessa fondatrice di Lifeed: «Mi viene in mente il report The Caring Company (Harvard Business School, 2019), che ha dimostrato che le aziende americane erano spesso inconsapevoli che il 73% dei loro dipendenti fosse un caregiver e che l'ignoranza delle responsabilità di cura comporta milioni di dollari di costi nascosti (turnover, perdita di conoscenze, assenteismo e "presenteismo"). Non specifica se si riferisce alle pmi, ma vi sono ricerche di Gallup e di Randstad che indicano come la percezione che l'azienda si preoccupi del benessere dei dipendenti porti a maggiore collaborazione e fiducia, e come un "capo tossico" sia una delle principali ragioni di dimissioni. In generale, emerge dalla cura un nuovo modello di leadership che non fa distinzione tra grandi e piccole aziende, ma si allontana dal modello tradizionale basato su "attacca o scappa", assertività, competizione, razionalità e orientamento al risultato a tutti i costi, spesso veicolato da un immaginario maschile di conquista. Credo che un nuovo modello di "leadership della cura", o "leadership generativa", naturale per noi come specie, sia l'unica strada percorribile per la sostenibilità e per avere un futuro comune, in un gioco che non sia mai più a somma zero».
 

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