Pechino intima alle società cinesi lo stop all'acquisto di chip Nvidia

Braccio di ferro con gli Usa. L'ordine riguarda in particolare la scheda introdotta solo due mesi fa come soluzione di “compromesso” dopo le restrizioni imposte dal governo statunitense all’export
September 16, 2025
Pechino intima alle società cinesi lo stop all'acquisto di chip Nvidia
Reuters |
Pechino alza ancora il livello dello scontro nella lunga e sempre più aspra competizione tecnologica con Washington, prendendo ancora di mira in particolare il gigante del tech Usa Nvidia. La Cyberspace Administration of China (CAC), l’ente che regola Internet e il settore digitale, ha infatti indicato ai giganti tecnologici nazionali – da ByteDance ad Alibaba – di sospendere immediatamente l’acquisto e la sperimentazione dei chip Nvidia progettati appositamente per il mercato cinese. L’ordine riguarda in particolare la scheda RTX Pro 6000D, introdotta solo due mesi fa come soluzione di “compromesso” dopo le restrizioni imposte dal governo statunitense all’export delle unità più avanzate.
Il divieto va ben oltre le precedenti raccomandazioni, che già scoraggiavano l’uso dell’H20, un altro chip “depotenziato” sviluppato da Nvidia per non violare i controlli americani. Molte aziende cinesi avevano pianificato ordini per decine di migliaia di unità, avviando test e lavori di validazione con i fornitori di server. Tutto è stato bruscamente interrotto dopo la comunicazione dell’ente regolatorio cinese. “Il messaggio ora è inequivocabile – spiega un dirigente di un colosso tech –: non possiamo più contare su un miglioramento dei rapporti geopolitici per tornare ad avere forniture Nvidia. L’unica strada è costruire un sistema domestico autosufficiente”.
La mossa riflette una strategia più ampia di Pechino: ridurre in tempi rapidi la dipendenza dai semiconduttori occidentali e promuovere una filiera interna in grado di sostenere la corsa nazionale all’intelligenza artificiale. Negli ultimi mesi, le autorità hanno convocato aziende come Huawei, Cambricon, Alibaba e Baidu, chiedendo dettagli sulle loro capacità di produzione e confrontando le performance dei processori nazionali con le soluzioni Nvidia disponibili sul mercato cinese. Secondo fonti vicine ai colloqui, la conclusione è stata che i chip “made in China” hanno ormai raggiunto, o persino superato, il livello dei prodotti consentiti dalle restrizioni statunitensi.
Il governo cinese avrebbe fissato un obiettivo ambizioso: triplicare già nel 2026 la produzione complessivo di processori IA nazionali, con l’intento di saturare la domanda interna senza dover ricorrere a fornitori americani. Una decisione che risponde direttamente alle pressioni di Washington, che sotto l’amministrazione Biden aveva bloccato l’esportazione dei modelli di punta Nvidia e imposto nuove condizioni di licenza anche ai chip “tagliati” su misura per Pechino. Trump aveva di recente aperto all’export di chip “depotenziati” verso Pechino, in cambio di una sorta “tassa sull’export” da parte dei colossi del tech Usa.
La partita non si gioca solo sul terreno della tecnologia, ma anche su quello della regolazione e del diritto della concorrenza. Nei giorni scorsi, l’autorità cinese per la protezione del mercato ha annunciato che Nvidia è sospettata di violazione delle leggi antitrust, in particolare in relazione all’acquisizione dell’israeliana Mellanox Technologies, conclusa nel 2020. Una mossa che appare tanto tecnica quanto politica: l’apertura di un’inchiesta a tutto campo arriva infatti in contemporanea con i nuovi round di negoziati commerciali tra delegazioni di Pechino e Washington a Madrid. Un tempismo che non sfugge agli osservatori. Mentre gli Stati Uniti cercano di imporre un quadro di controllo sull’export delle tecnologie più sensibili, Pechino replica mettendo sotto pressione il principale fornitore globale di semiconduttori per l’intelligenza artificiale. L’obiettivo è duplice: da un lato, difendere la propria sicurezza nazionale riducendo la penetrazione di prodotti stranieri percepiti come potenzialmente rischiosi; dall’altro, accelerare il sostegno politico e industriale ai campioni nazionali del settore.
Lo scontro Usa-Cina mette in evidenza la natura sempre più geopolitica della sfida sui chip. Per gli Stati Uniti, limitare l’accesso cinese alle tecnologie più avanzate significa mantenere un vantaggio strategico non solo economico, ma anche militare, visto che i processori di nuova generazione sono alla base tanto dei modelli linguistici di intelligenza artificiale quanto delle applicazioni in campo difensivo. Per la Cina, al contrario, l’autosufficienza tecnologica è ormai considerata una priorità di sicurezza nazionale, al pari della sovranità alimentare o energetica. La conseguenza è un progressivo sganciamento delle due economie digitali: da un lato Nvidia e gli altri colossi americani, vincolati alle decisioni di Washington, dall’altro un ecosistema cinese sempre più spinto a innovare e a sostituire le importazioni con soluzioni locali. Una dinamica che potrebbe ridisegnare le catene globali del valore e accelerare la frammentazione tecnologica tra blocchi rivali.
Per Nvidia, che nel 2024 ha realizzato oltre il 13% delle proprie vendite in Cina, la stretta rappresenta un colpo significativo. L’azienda si trova ora a dover bilanciare le richieste del governo statunitense, le esigenze di un mercato strategico come quello cinese e le indagini regolatorie che ne mettono in discussione le operazioni internazionali. Pechino, dal canto suo, sembra intenzionata a trasformare le restrizioni in un catalizzatore per il rafforzamento della propria industria nazionale dei semiconduttori. La sfida sui chip diventa così un paradigma del nuovo ordine globale in via di formazione: un mondo meno interconnesso, più competitivo e segnato da una crescente politicizzazione delle tecnologie emergenti.

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