I brand ora “rubano” i capi tradizionali. E le comunità locali si infuriano
di Redazione
Sempre più frequenti, da parte delle case di moda, le produzioni «ispirate» all’artigianato delle popolazioni locali

Dalla Cina al Messico, dalle passerelle alla pubblicità, la moda globale continua a inciampare nello stesso errore: prendere, semplificare, vendere. Senza ascoltare né restituire. A volte perpetuando stereotipi razzisti, altre volte svuotando di senso secoli di tradizione. L’ultimo caso ha coinvolto Swatch per la diffusione di una campagna pubblicitaria in cui un modello si tira gli angoli degli occhi all’indietro, mimando la cosiddetta “slanted eye pose”, gesto comunemente associato a stereotipi razzisti sugli occhi asiatici.
Nel fine settimana, il marchio svizzero ha pubblicato un comunicato di scuse in cinese e in inglese, dopo le polemiche scoppiate sui social. «Ci scusiamo sinceramente per qualsiasi turbamento o incomprensione che questo possa aver causato», ha scritto l’azienda, annunciando il ritiro globale del materiale. La vicenda ha avuto ripercussioni anche sul mercato: le azioni Swatch sono scese fino al 2,7%, in un momento già difficile per il gruppo, colpito dal calo della domanda asiatica e da dazi statunitensi.
Ma Swatch non è un’eccezione, né un incidente isolato. Il gesto infelice di quella pubblicità si inserisce in una catena più ampia di rimozione e semplificazione culturale, che da anni colpisce popoli, simboli, e patrimoni identitari. Lo dimostra anche il recente caso di Adidas, che ha lanciato il modello “Oaxaca slip-on” ispirato agli huaraches, sandali intrecciati a mano tipici delle popolazioni indigene del Messico. Nessun riconoscimento, però, alla comunità di Villa Hidalgo Yalálag, da cui proviene il motivo tradizionale riprodotto nella scarpa.

Si dice che nell’antico Messico, i defunti indossassero gli huaraches per attraversare il Mictlán, l’oltretomba azteco, con rispetto e dignità. Oggi, quei sandali intrecciati a mano continuano a essere realizzati con pazienza da artigiani che custodiscono, generazione dopo generazione, tecniche e saperi ancestrali. Per questo, vederli comparire in una collezione firmata Adidas senza alcun riconoscimento a chi li ha creati, ha suscitato indignazione. La protesta del governo di Oaxaca è stata immediata, e ha portato anche la presidente Claudia Sheinbaum a intervenire pubblicamente, annunciando l’intenzione di rafforzare la protezione legale delle comunità indigene. Adidas ha chiesto scusa e promesso un dialogo con gli artigiani locali.
Ma il caso non è isolato. Lo scorso giugno era scoppiato quello che è stato ribattezzato come “sandal scandal”: Prada è stata accusata di aver presentato durante la Milano Fashion Week un paio di sandali in cuoio molto simili ai Kolhapuri chappal, calzature tipiche dell’India risalenti al XII secolo. Riconosciuti dal 2019 come prodotti a indicazione geografica protetta, possono essere chiamati così solo se realizzati in alcune province del Karnataka e del Maharashtra. Anche qui, nessun credito all’origine: la Camera di commercio locale ha chiesto un’ammissione pubblica e la possibilità di collaborazioni con le comunità coinvolte. E la lista è lunga.
Nel 2015 la stilista francese Isabel Marant è stata accusata di aver copiato i motivi grafici della comunità indigena dei Mixes dello stato messicano di Oaxaca. Marc Jacobs, nel 2017, ha scatenato polemiche facendo sfilare le modelle con dreadlocks colorati; Gucci, un anno dopo, ha portato in passerella un turbante simile a quello sacro della tradizione sikh. Carolina Herrera, nel 2019, ha utilizzato motivi Otomí e ricami del sarape messicano senza coinvolgere le artigiane locali. In Giappone, Kim Kardashian ha dovuto rinunciare al nome “Kimono” per la sua linea di lingerie dopo le proteste del governo. E ancora, in Cina, nel 2022, Dior è stata criticata per una gonna ritenuta troppo simile al mamianqun, tradizionale abito femminile.
Se il dibattito si divide tra chi li ritiene solo apprezzamenti e chi sottolinea si tratti di appropriazione culturale, diversi Paesi stanno rafforzando le loro tutele. In Messico è stata approvata una riforma alla legge sul diritto d’autore che permette di sanzionare l’uso non autorizzato di simboli, motivi e tecniche delle popolazioni indigene. Panama ha varato una legge per proteggere i molas del popolo Guna. In India è stata creata la Traditional Knowledge Digital Library, un archivio pubblico per evitare la registrazione indebita di formule ayurvediche o design tribali. In Perù, il ministero della Cultura ha catalogato i motivi tessili andini per agevolarne la tutela legale. Negli Stati Uniti, la Navajo Nation ha citato in giudizio Urban Outfitters per uso improprio del nome e ha ottenuto un accordo che ha incluso il ritiro dei prodotti. Il punto, in fondo, è sempre lo stesso. Perché mentre l’estetica viene presa e ricodificata per il mercato, spesso si dimentica o stigmatizza chi custodisce la memoria e la storia di quelle forme.
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