Equo compenso e diritto d'autore online: la Corte Ue sostiene l'Italia
di Redazione
L'avvocatura generale si schiera a favore del regolamento Agcom e respinge le posizioni di Meta: nessuna limitazione alla libertà di stampa

L’avvocatura generale della Corte di Giustizia Ue, con un parere sulla disputa tra editori e piattaforme digitali sulla diffusione di contenuti giornalistici sosteniene la posizione italiana, sottolineando che è legittimo per Paese adottare misure a tutela del diritto d’autore e un equo compenso per lo sfruttamento degli articoli. Il parere espresso dall’avvocato Maciej Szpunar dà ragione all’Italia, e nel caso specifico all’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni (Agcom), nello scontro con Meta, la società di Zuckerberg che aveva impugnato il regolamento Agcom del 2022. Sono gli Stati che hanno il potere di difendere il diritto d’autore, che può essere difeso anche in caso di “ripubblicazione” di un contenuto su una piattaforma online ha precisato Szpunar aggiungendo che le limitazioni così introdotte non pregiudicano la libertà di stampa, tutt’al più la rafforzano, perseguendo la sostenibilità economica della stampa, pilastro fondamentale della democrazia
Il regolamento dell'Agcom impone l’obbligo per le piattaforme online di corrispondere un equo compenso per la diffusione dei contenuti giornalistici sulla base dei ricavi pubblicitari generati in virtù del loro utilizzo. Il compenso può arrivare fino al 70%. Secondo Meta il provvedimento violerebbe la normativa europea sul diritto d’autore, la libertà di fare impresa nonché la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Lo scontro va avanti dal 2023 quando nel primo ricorso il Tar del Lazio nell’accogliere alcune delle istanze del colosso americano ha sospeso il regolamento – poi però ripristinato a marzo del 2024 dal Consiglio di Stato – sottoponendo il giudizio alla Corte di Giustizia europea.
L’avvocato generale della Corte Ue oggi si è pronunciato a favore delle limitazioni imposte dall'Italia sostenendo che «misure quali l'obbligo per i prestatori di servizi della società dell’informazione di avviare trattative, di fornire determinate informazioni o di non ridurre la visibilità dei contenuti degli editori durante tali trattative non sono, in linea di principio, contrarie alla direttiva Ue, in quanto non obbligano a concludere un contratto o ad effettuare un pagamento in assenza di un utilizzo effettivo o previsto». Si tratta, è bene ricordarlo, di un parere non vincolante per la decisione finale della Corte Ue ma comunque di un pronunciamento importante. La posizione della giustizia europea farà da guida alle autorità italiane nella conclusione della contesa.
La trasformazione digitale dell'informazione ha causato un drastico calo delle entrate degli editori, mettendo a repentaglio il loro modello economico e il loro ruolo essenziale nelle società democratiche, ricorda l'avvocatura generale nel suo pronunciamento, sottolineando come anche la Ue abbia adottato iniziative legislative a tutela della proprietà intellettuale. I social network, ed in particolare quelli di Meta, Facebook e Instagram, sono diventati la principale fonte di informazione.
La disputa fra editori e piattaforme online va avanti da anni: gli editori nel rivendicare la “proprietà” degli articoli giornalistici, tutelati dalla normativa sul diritto d’autore, ritengono che gli stessi non possano essere diffusi attraverso piattaforme online senza che si corrisponda un relativo compenso anche perché generando traffico producono un valore anche in termini di introiti legati alla pubblicità. Le piattaforme digitali al contrario sostengono di portare visibilità ai giornali e agli editori e di conseguenza introiti pubblicitari. Google ha più volte minacciato il blocco della visualizzazione degli articoli giornalistici sul motore di ricerca, nella sezione Google News (emblematico il caso spagnolo con la "rimozione" degli editori) e sulla piattaforma Discover come arma di ricatto contro le leggi sui compensi agli editori. Meta si è opposta fin da subito alle regole italiane sostenendo che siano in conflitto con la direttiva europea sul diritto d’autore e che violino il principio di libertà d’impresa.
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