«La violenza di genere riguarda tutti, l’educazione all’affettività può aiutare»

di Elisa Campisi inviata a Firenze
Raffaella Ruocco, ad di Prodos, ccop sociale di Napoli che è attiva sul fronte della prevenzione: «A tenere viva l’attenzione sul tema della violenza devono essere anche gli uomini, ognuno nel proprio ambito di vita e professione»
October 4, 2025
«La violenza di genere riguarda tutti, l’educazione all’affettività può aiutare»
«Penso sia arrivato il momento che a parlare di violenza sulle donne, ad accendere i riflettori e tenere viva l’attenzione su questo tema, a intestarsi il processo di educazione al rispetto e all’affettività non siano più solo le donne ma anche gli uomini, ognuno nel proprio ambito di vita e professione. In questo senso Gino Cecchettin sta dando un buon esempio perché, oltre a essere il padre di Giulia, quando parla di violenza lo fa da uomo che non tollera questo fenomeno», a parlare con Avvenire è Raffaella Ruocco, che ieri, al Festival di Economia Civile di Firenze, ha incontrato proprio Cecchettin nell’ambito di un evento su questi temi. Ruocco è amministratrice di Prodos, una cooperativa sociale di Napoli che opera sia nel campo della prevenzione della violenza di genere – attraverso percorsi educativi nelle scuole e non solo – sia in quello della protezione, attraverso la gestione di diversi centri antiviolenza.
In particolare, come lavorate?
Alcune donne arrivano nei nostri centri antiviolenza in seguito a denunce nei confronti degli uomini maltrattanti, per altre invece la presa in carico è più graduale perché magari devono acquisire maggiore consapevolezza e fiducia per poter fare il passo della denuncia. Spesso hanno alle spalle anni di violenza che hanno paralizzato la loro vita e quella dei figli: nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di madri e la violenza coinvolge anche i minori, che assistono o subiscono direttamente. Nei centri rifugio operano équipe multiprofessionali – psicologhe, assistenti sociali, avvocate – che supportano le donne in un percorso che permette loro di riprendere in mano la propria esistenza. Il nostro obiettivo non è solo offrire protezione, ma farle rifiorire lavorando sull’empowerment.
Nel campo della prevenzione invece come operate?
Oltre a entrare nelle scuole, cerchiamo di coinvolgere tutti gli attori che possono contribuire a creare una “comunità educante”, là dove i ragazzi e le famiglie si incontrano. Penso a parrocchie, Terzo Settore, centri polifunzionali... Il nostro è un approccio olistico: parliamo di stereotipi, emozioni, affettività, di relazioni sane e cultura perché è tutto molto intrecciato. Il modello lo adattiamo in base alle fasce d’età, ma uno strumento che ci accompagna sempre è “Amore senza lividi. Storie di guerriere senza paura”, un libro in cui abbiamo raccolto dieci storie di donne che ce l’hanno fatta. Sentir leggere queste testimonianze, a volte direttamente dalla voce della protagonista, ha un impatto enorme sui ragazzi: fa capire loro che dalla violenza si può uscire.
Parliamo tanto di violenza, eppure continua a ripetersi. Quali sono i nodi da sciogliere?
Sicuramente la cultura patriarcale in cui siamo immersi, che determina ancora uno squilibrio di potere tra donne e uomini, dal privato alla sfera pubblica. Si deve capire che la violenza non è solo una questione di diritti umani: è un problema di salute pubblica, un ostacolo allo sviluppo economico del Paese e un freno a una democrazia compiuta. Bisognerebbe promuovere l’impianto strategico della Convenzione di Istanbul – intensificando prevenzione e protezione – e invece in Italia i centri antiviolenza sono appena un ventesimo di quelli previsti dalla Convenzione, i fondi per i servizi sono esigui e spesso non programmati stabilmente sul lungo periodo. Poi c’è il tema della mancanza di dialogo tra la giustizia penale e quella civile: per le donne che intraprendono sia la denuncia contro il partner sia la separazione questo crea cortocircuiti enormi, soprattutto nella gestione dei minori.
Rispetto alla prevenzione si è fatto qualche passo avanti?
Si è certamente data maggiore rilevanza politica e istituzionale al tema, ma nonostante le direttive e le raccomandazioni della Ue, l’Italia rimane uno dei pochi Paesi europei senza una legge che renda sistematica l’educazione socio-emotiva nei curricoli scolastici. Oggi tutto dipende dalla buona volontà dei dirigenti e degli insegnanti. È fondamentale invece che l’educazione all’affettività venga inserita nel programma ministeriale come obbligatoria, e che si basi su un approccio condiviso, quello olistico che spiegavo prima. Come dice il professore Umberto Galimberti, “I sentimenti s’imparano, non li abbiamo per natura”. A scuola – così come in famiglia – bisognerebbe insegnare a riconoscerli e gestirli, altrimenti vengono espressi male: la violenza è frutto di emozioni non pensate, non riconosciute.
Come accennava, serve il coinvolgimento delle famiglie e della “comunità educante”.
Bisogna lavorare in rete, non si può andare per compartimenti stagni. Le scuole sono protagoniste, ma non possono essere le uniche depositarie delle azioni di prevenzione. I ragazzi vivono in tanti contesti: è lì che bisogna diffondere la cultura del rispetto. Questi discorsi vanno affrontati anche con gli adulti: genitori, educatori, formatori. Spesso siamo noi a trasmettere inconsapevolmente modelli stereotipati, quindi ciascuno nella propria veste dovrebbe esporsi e rivedere i propri modelli. È necessario lavorare anche con le famiglie. Noi, per esempio, portiamo l’educazione all’affettività anche nei centri per famiglie vulnerabili, facendo dialogare genitori e figli.
Sul coinvolgimento degli uomini rispetto al tema, vede un cambiamento?
Troppo spesso a parlare di violenza sono ancora solo le donne: magistrate, operatrici sociali, le insegnanti… Negli ultimi tempi sento più colleghi e amici che affrontano il tema, ma gli uomini si sentono ancora poco ingaggiati, ci mettono meno la faccia. L’esempio di Cecchettin è un segnale dirompente: è stato il primo uomo a parlarne pubblicamente. È arrivato il momento che anche gli altri – padri, politici e professionisti nelle varie vesti – condannino il fenomeno e se ne occupino. Le donne sono stanche di dover risolvere da sole un problema che riguarda tutti. Una donna infelice a causa della violenza determina figli infelici. Ne soffre tutta la famiglia, che è la prima cellula della società. È una questione di felicità collettiva.

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