Istruzione e diritti per le donne afghane

Jamila, dopo la riconquista da parte dei taleban, si è rifugiata in Canada ma continua a lavorare per il suo Paese
November 1, 2022
Istruzione e diritti per le donne afghane
«La domanda non è se, ma quando. Le afghane sconfiggeranno i taleban, su questo non ho dubbi. Non so, però, quanto tempo ci vorrà. A giudicare dallo scenario attuale, dominato dalla catastrofe umanitaria, temo non poco». La voce dolce di Jamila Afghani contrasta con il suo carattere di acciaio. Combatte fin da quando è nata, 46 anni fa, a Kabul. Prima per sopravvivere alla polio, che le ha lasciato forti problemi di deambulazione: tuttora è costretta ad utilizzare le stampelle per camminare. Poi per resistere alla guerra che l’ha ferita e obbligata a trasferirsi in Pakistan. «Avevo tredici anni. Il mio primo esilio l’ho trascorso a Peshawar, in un campo profughi», racconta Jamila. Là ha sofferto la fame – come il resto degli sfollati, in particolare donne, bambini e anziani – ma ha anche potuto studiare. «Sono grata alla mia disabilità perché mi ha consentito di trovare la mia strada. Fin da piccola, non potevo andare a giocare fuori con le altre bambine, così stavo sempre in casa , a leggere. Leggevo di tutto, qualunque cosa mi trovassi sotto mano. E più leggevo, più avevo voglia di sapere. Vedendo questa passione, la mia famiglia mi ha mandato a scuola. E questo mi ha cambiato la vita. Così mi batto perché altre bimbe abbiano la stessa opportunità». Dopo Peshawar, Jamila è stata rifugiata altre cinque volte. L’ultima fuga è cominciata il 26 agosto 2021, tredici giorni dopo la riconquista del Paese da parte dei taleban. E l’ha portata prima in Norvegia e ora, dall’11 agosto scorso, in Canada, a Kichener, una cittadina vicino a Toronto. «È stato duro lasciare l’Afghanistan e il mio lavoro per l’istruzione femminile. Non ho avuto, però, altra scelta. Mi stavano cercando. Andare via era l’unico per poter continuare a battermi in difesa delle donne ». Una lotta lunga 25 anni per la quale, il 15 ottobre, è stata insignita del prestigioso 'Aurora prize for awakeining humanity', assegnato dalla Aurora humanitarian initiative in memoria dei sopravvissuti al genocidio armeno e in segno di gratitudine verso i loro salvatori.
«È un grande onore che ricevo nel nome di tutte le afghane rimaste senza voce. E dimenticate dal mondo», sottolinea. Con il milione di dollari del riconoscimento, Jamila ha scelto di sostenere la Women international league for peace and freedom ( Wilpf ) e la Noor education and capacity development organization (Necdo). Organizzazione quest’ultima creata dalla stessa attivista per alfabetizzare minori e adulte. Prima della proclamazione del 'nuovo Emirato', oltre 100mila persone frequentavano i corsi, realizzati nelle comunità più remote e guidati da altre donne. Diecimila vittime di abusi domestici, inoltre, ricevevano assistenza legale e sostegno psicosociale. I taleban non hanno fermato il lavoro di Necdo e di Jamila. «Mi hanno costretto a rimodularlo in base al nuovo contesto. I diecimila operatori di Necdo continuano a lavorare, dentro e fuori dal Paese. Ci coordiniamo a distanza. Mi collego con loro quotidianamente. Solo la mia notte è il loro giorno e viceversa. Necdo cerca di tenere un basso profilo per non irritare troppo le autorità. Ogni ora che riusciamo a restare aperti è una sfida. Ovviamente abbiamo dovuto smettere la difesa giuridica delle donne vittime di violenza. Sarebbe inutile dato che sono i fondamentalisti ad amministrare la giustizia. Ma continuiamo a fornire loro assistenza. E abbiamo iniziato a dare un supporto economico, fondamentale a causa della feroce recessione dell’economia ». Proprio quest’ultima si sta rivelando un’ulteriore catena che imprigiona le afghane. «Tutti sono concentrati sulla sopravvivenza e la protesta sociale passa in secondo piano. Eppure, perfino in tale scenario, le studentesse scendono in piazza contro il divieto a proseguire la scuola al termine della sesta classe. In Iran ci hanno impiegato quarant’anni per scendere in piazza. Da noi, le manifestazioni sono iniziate il giorno dopo l’insediamento degli studenti coranici al governo di Kabul. Si tratta di manifestazioni locali, certo, ma sono tante e determinate. E, piano piano, un passo alla volta, la rivolta nonviolenta eroderà il potere dei taleban». Jamila vorrebbe essere in Afghanistan quel giorno. «Appena comprenderò di poter riprendere a lavorare, ritornerò. L’ho sempre fatto».
Quando le domandano da dove nasca tanta determinazione, Jamila risponde senza esitazione: «Sono una donna. Una donna istruita. Una donna disabile. E una donna che ha due figlie. Per questo mi sento quattro volte responsabile. L’Afghanistan è il nostro Paese. Dobbiamo essere noi a cambiarlo. Ognuno deve fare la sua parte. Io faccio la mia». A partire proprio – per parafrasare Malala Yousafzai – da un libro, una matita e un quaderno. «Se dai istruzione a una donna, istruisci l’intera famiglia. È come la luce di una candela: è piccola ma dalla sua fiamma possono nascerne molte altre. Così tante da illuminare tutto l’Afghanistan». Jamila non teme di definirsi «femminista». «Lo sono perché sono una donna e una madre. 'Femminismo' non vuol dire odiare gli uomini o desiderare che patiscano le stesse sofferenze subite dalle donne. Al contrario. L’oppressione femminile fa male anche a loro. Progrediamo nella relazione e nello scambio. Una nazione sana non può escludere dalla piena cittadinanza la metà della propria popolazione. Il contributo delle donne è determinante per far andare avanti il Paese. Femminismo significa costruire una società più giusta e pacifica per le mie figlie e le figlie delle mie figlie. E anche per i loro figli. Per tutte le nuove generazioni di afghani».

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