Intelligenza artificiale. O dei limiti della conoscenza on demand

May 12, 2024
Intelligenza artificiale. O dei limiti della conoscenza on demand
«Qual è il tuo scopo nella filosofia? Mostrare alla mosca la via d’uscita dalla trappola », scrive Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche. In effetti la filosofia può aiutare a uscire da diverse trappole, semplicemente ponendo le questioni in modo diverso, guardando i fenomeni con occhio attento e facendo passare i problemi al setaccio della ragione. Ed è ciò che vogliamo sperimentare, in qualche articolo, con una serie di questioni pratiche e contemporanee. Come non iniziare con the talk of the town, ciò di cui tutti parlano, cioè l’intelligenza artificiale (IA), qualunque cosa significhi questa specie di endiadi? Un fenomeno che ci esalta e preoccupa allo stesso tempo, che conosciamo esteriormente e spesso confusamente. È di pochi giorni fa il lancio di GPT-4 Turbo, più rapido, più aggiornato e soprattutto meno verboso: il nuovo modello su cui gira la celebre interfaccia di ChatGPT, promette, per chi paga, un salto in avanti colossale nelle prestazioni, secondo il destino manifesto dell’informatica e della tecnologia, da sempre. Ma da qualche anno esso coincide anche con il destino, meno manifesto, dell’umanità, e non solo quella ricca e à la page, che accede per diletto o interesse a questi strumenti, ma anche, di riflesso, per tutti gli altri che nemmeno sanno che cosa sia ChatGPT. È la globalizzazione delle informazioni, dei flussi, dei modelli.
Periodicamente siamo appesi alle novità dei sistemi di IA, che si evolvono verso piattaforme in cui gli utenti possono, almeno in parte, addestrare la macchina e renderla più vicina alle proprie esigenze professionali o esistenziali, chissà, e usufruire delle risposte. Nella sua versione popolare, cioè ChatGPT, l’IA trasforma infatti la conoscenza da possesso (individuale o collettivo) in fruizione, in streaming. Un processo già iniziato con l’affermazione dei motori di ricerca come unico canale di accesso al sapere sul web: l’aumento esponenziale delle informazioni, infatti, ha richiesto sistemi sempre più raffinati e poi personalizzati di catalogazione, selezione e ricerca. Il risultato è che non incappiamo quasi mai in informazioni che non stiamo cercando, con un notevole risparmio di tempo, ma anche, forse, con una potenziale chiusura all’inatteso, all’inciampo, alla serendipità.
La conoscenza è fuori da noi e vi accediamo attraverso il sentiero prestabilito dalle app, che termina con un cancello da cui passare, il quale oggi ha l’aspetto di una chat, una chiacchierata con qualcuno a cui ci rivolgiamo come l’oracolo che tutto sa. Ma siccome siamo molto esigenti e a volte vogliamo parlare di argomenti specifici, non troviamo soddisfazione nel nostro interlocutore che si è formato su siti e database generalisti, per cui possiamo addestrare noi stessi la nostra IA, immettendo fonti e contenuti di nostro interesse; allora le chiacchierate saranno più soddisfacenti e le richieste di calcolo, analisi o sintesi più puntuali. Eppure, anche di fronte a ciò siamo tornati a un antico adagio: è saggio colui che per tutto ha una risposta, ma è ancora più saggio colui che per tutto ha una domanda, comprendendo che per sfruttare al meglio questa conoscenza accumulata nelle macchine dobbiamo formulare le domande giuste.
Nasce allora la disciplina detta “Prompt Design”, cioè la competenza del sapersi rapportare linguisticamente e concettualmente con le varie interfacce di IA. Interrogare il “pappagallo stocastico” (così lo definirono due delle sue sviluppatrici, presso Google, procurandosi la fama e il licenziamento immediati) non è cosa per tutti: questi sistemi, infatti, non capiscono realmente la lingua, ma sanno quali parole devono statisticamente seguire ad altre e, incrociando migliaia di ulteriori criteri di calcolo, propongono le loro risposte. Occorre studiare, quindi, per fare domande euristiche a ChatGPT, come per fare una ricerca su Google o creare dibattito su Instagram, altrimenti otteniamo risposte insoddisfacenti. Tutti nuovi mestieri, che si occupano di come estrarre la conoscenza da un sistema esterno a noi: l’opposto della cultura in senso classico (immettere conoscenza dentro noi stessi) o della dottrina buddista (trovare la consapevolezza dentro noi stessi).
Sorge allora il timore di demandare troppo a strumenti esterni il nostro sapere, che appunto possiamo solo usare, ma non possedere. Non è però un timore recente. Già Platone nel Fedro avvertiva dei pericoli di una memoria esterna, che allora aveva le sembianze della scrittura, dono del dio Thot al faraone, il quale si insospettì subito, intuendo che essa «ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di sé stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei». La conseguenza, conclude mesto il faraone, è che i giovani si crederanno colti, mentre saranno ignoranti, «imbottiti di opinioni invece che sapienti». Dunque, se siete timorosi che la conoscenza stia uscendo da noi per diventare solo on demand, siete in buona compagnia. Una domanda: dai tempi del dio Toth, oggi noi usiamo o possediamo la scrittura?
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