Dalla scuola delle competenze alla scuola dei talenti

Mentre le competenze si acquisiscono, i talenti si sviluppano tramite l’accompagnamento educativo. L’innovazione rende obsolete le capacità tecniche, ma non le abilità del carattere
September 16, 2025
Dalla scuola delle competenze alla scuola dei talenti
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Occorre dare alla nostra scuola una decisa svolta nella direzione di un cambiamento radicale del suo impianto, per così dire, filosofico. Si tratta di agire per passare da una scuola che si limita alla sola istruzione, ad una che pone la priorità nell’educazione. Va da sé, che il mio riferimento è alla scuola in quanto istituzione e non già alle tante esperienze positive che, per fortuna, si muovono già nella direzione suggerita. Come noto, la nozione di competenza viene applicata al contesto scolastico in seguito all’affermazione, nel mondo Occidentale, del taylorismo quale modello vincente di organizzazione del lavoro in tutti gli ambiti di attività e non solo nell’industria come invece si tende a credere. (Il celebre libro di F. Taylor è del 1911 poi tradotto in quasi tutti le lingue). In precedenza, si parlava di saperi che la scuola era chiamata a trasmettere. Osservo che il termine competenza ha la medesima radice di competizione: per competere, nel mercato e altrove, occorre essere competenti; diversamente si arretra. Ebbene, è l’istruzione che, intervenendo sulle abilità cognitive del giovane, lo prepara a competere.
L’istruzione, basicamente, è una pedagogia delle competenze, architettata per rendere gli allievi funzionali al sistema ford-taylorista che è ancor’oggi, ma ormai in veloce declino, il modello organizzativo di riferimento in tutti gli ambiti della vita associata. (Si rammenti che quasi mai la competizione premia il merito, come è stato convincentemente dimostrato). Mentre le competenze si acquisiscono, i talenti che la natura generosamente distribuisce, in modi e forme diverse, a tutti gli esseri umani, si sviluppano per il tramite dell’educazione, che è un accompagnamento – educere - e che vale a far evolvere le abilità del carattere (character skills). Nessuno nasce già competente, ma tutti nascono con un bagaglio di talenti, ricevuti in dono gratuito. Per dirla nei termini della più recente teoria economica, la competenza tende ad accrescere le capacità della persona, grazie alla trasmissione di contenuti culturali e scientifici; il talento, invece, aumenta le capacitazioni del soggetto.
Ad Amartya Sen e Martha Nussbaum si deve il merito di aver per primi mostrato, in via empirica, che all’aumento delle capacità degli allievi non sempre fa riscontro un analogo aumento delle loro capacitazioni – con le conseguenze di natura sociale, psicologica e etica che è facile immaginare. Ha scritto Platone: “La mente non si riempie se prima non si è aperto il cuore” - quanto a significare che l’educazione vien prima dell’istruzione. La nostra scuola sa aprire il cuore dei giovani? L’educazione esprime qualcosa che va ben oltre il perimetro della mera strumentalità. Un progetto educativo manca il suo scopo se si limita ad insistere sugli strumenti della conoscenza – che sono necessari – e non anche ad alimentare la speranza nell’allievo, cioè a dire renderlo capace di appassionarsi e di desiderare. Perché il giovane capace di passione è lo stesso giovane capace di azione. Come ripeteva W. Goèthe: “Si impara solo ciò che si ama”.
Oltre l’over-skilling
Perché il modello di scuola come luogo di sola istruzione non è più, oggi, proponibile? Mi limito a suggerire due ragioni principali. Primo. L’era digitale ha portato ad una crescente attenzione alle competenze, ma ha anche fatto emergere un paradosso: molti sono gli occupati che dispongono di abilità cognitive superiori a quelle richieste dai loro impieghi. È il nuovo fenomeno dell’over-skilling: le capacità avanzate della persona restano in gran parte inutilizzate, con le conseguenze ormai ben note: frustrazione, calo di motivazione, spreco di risorse. Il Rapporto dell’Ocse Employment Outlook 2023 ci informa che oltre il 25% degli occupati dei Paesi avanzati è in disallineamento e la spiegazione è che nell’ultimo ventennio i Paesi dell’Occidente avanzato hanno investito in istruzione ad un tasso superiore al ritmo di trasformazione delle strutture occupazionali. Donde la conclusione che la focalizzazione, a volte parossistica, della scuola sull’accrescimento dell’offerta di competenze, cioè di abilità cognitive, finisce per generare un risultato perverso. A ciò si aggiunga che l’accelerazione (non velocità) senza precedenti nei cicli di innovazione comporta una obsolescenza rapida delle competenze già acquisite. Non è così con le abilità del carattere, che mai diventano obsolete, anzi!
Il rapporto dell’American Enterprise Institute del giugno 2025 conferma che le abilità non cognitive stanno acquisendo, oggi, un valore crescente. È agevole darsene conto. L’adozione di sistemi di IA non aumenta solamente la produttività dei processi produttivi, ma rende di cruciale rilevanza abilità come quelle di leadership, empatia, capacità di relazionarsi, creatività, pensiero critico. Mentre i compiti puramente tecnici vengono automatizzati, cresce la domanda di persone capaci di integrare tecnologia e giudizio umano, capaci cioè di gestire la complessità, costruire relazioni, esprimere giudizi di valore. Di qui la richiesta che la scuola si ponga l’obiettivo di sviluppare percorsi educativi mirati ad incidere sul carattere del giovane. Di straordinaria rilevanza è la nuova ricerca, pubblicata nel 2024 a cura del premio Nobel per l’economia James Heckman che mostra, con dovizia di particolari, che nella selezione del personale da assumere, le imprese, oggi, assegnano un peso molto superiore alle character skills piuttosto che alle cognitive skills. (Nel dibattito pubblico, anche pedagogico, la parola skill viene resa talvolta con competenza o capacità. Si tratta di un grossolano errore, perché skill si traduce con abilità e destrezza). È motivo di compiacimento prendere atto che il nostro Parlamento, con Legge n.22 del 19 febb. 2025, dal titolo “Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive e trasversali nei percorsi delle istituzioni scolastiche”, abbia avviato una fase sperimentale di tre anni per restituire alla scuola la sua vera e propria missione: contribuire allo sviluppo (non crescita!) umano integrale del giovane. (Per un resoconto efficace e stimolante, rinvio agli articoli di E. Balduzzi e di G. Chiosso sul n.9 di questa Rivista del maggio 2025).

Direzioni consapevoli
La seconda ragione. Si è ormai preso atto che l’IA Generativa (e tra breve quella Generale) non avrà, come si era sperato agli inizi, il ruolo che la catena di montaggio (inventata da F. Taylor) ha avuto nel passaggio dalla società agricola a quella industriale. La catena di montaggio venne inventata per consentire anche ai semi-analfabeti di inserirsi nel processo produttivo. L’IA invece è una tecnologia che se applicata elimina la necessità di soggetti che non hanno le capacità per usarla. E quali sono queste capacità? Non certo quelle cognitive, tecniche, codificate, facilmente trasferibili da un soggetto all’altro. Il punto è che il valore della IA deriva dalla qualità delle domande che riceve, perché l’IA non apprende nulla di nuovo da sola: rimescola, combina e risponde. Per attivarla in modo efficace occorre sapere cosa si sta cercando e soprattutto perché. Serve cioè una direzione consapevole del pensiero. L’IA nulla sa, finché qualcuno non le chiede qualcosa che valga la pensa sapere. In tal senso, l’IA non sostituisce il pensiero umano, lo riflette. E se il pensiero che la guida è povero, anche la risposta lo sarà. Ci vuole allora immaginazione, spirito critico, plasticità (non flessibilità) mentale. E queste abilità sono il frutto dell’educazione, non certo dell’istruzione. Una lettura interessante su come l’uso di algoritmi, sistemi produttivi, strumenti generativi stia trasformando in modo radicale la didattica e pure l’organizzazione scolastica è il recente saggio di H. Crampton e D. Burke, AI Applications in Higher Education. Theories, Ethics and Case Studies (London, Routdlege, 2025). Le Autrici insistono con forza sulla necessità che l’IA debba essere inserita all’interno di progetti educativi che mantengono centrale la dimensione umana – di quella spirituale in special modo.
La richiesta sociale di competenze, ancor’oggi dominante, spinge i giovani ad appiattirsi sulla prestazione perché indotti a ritenere di ricevere in tal modo il riconoscimento della loro performance e quindi del loro essere “funzionali a” e non invece di essere riconosciuti come persone dotate di una propria identità. Il guaio è che il giovane che viene giudicato (non valutato, si badi!) secondo la sua prestazione finisce per giudicare se stesso in base ai risultati che ottiene e perciò viene spinto ad incrementarli – come accade nella gamificazione che altro non è che una versione edulcorata del neo-taylorismo, da taluno maldestramente consigliata come un avanzamento sul fronte pedagogico. Al contrario, l’ansia da prestazione lacera la soggettività, genera un io frantumato; il soggetto lavora bensì, ma senza realizzarsi. (Cfr. J. Haidt, La generazione ansiosa, Rizzoli, 2024).

Il dovere di rincuorare
Cosa e come fare per educare? Nutrire il talento è nelle condizioni odierne, obiettivo primario di un progetto educativo, perché il problema del giovane, oggi, non è tanto quello di non avere talento, ma di non riuscire a riconoscere il proprio. Se è vero che ogni giovane possiede talenti, tanto o pochi che siano, è del pari vero che è il timore di fallire o di venire umiliati che impedisce la valorizzazione degli stessi. Il talento ha una voce insistente, ma esile, così che riusciamo a “sentirla” solamente quando qualcuno ce la ripete, rincuorandoci. E’ in ciò il senso profondo dell’educazione. Il processo educativo postula la disciplina, e non può prescindere dalla pratica delle virtù. Il filosofo e teologo tedesco Bernhard Bueb nel suo Elogio della disciplina (Rizzoli, 2007) argomenta che i giovani hanno diritto alla disciplina. Educare significa esercitare un’autorità – nel senso di auctoritas, non certo di potestas. Tre sono le basilari relazioni di autorità che possono stabilirsi tra maestro (magis-ter, chi è più tra due) e discepolo. Nella prima, il maestro “annienta” l’allievo, psicologicamente, se non fisicamente. Pitagora non esita a far annegare il suo migliore allievo accusato di averlo tradito divulgando il segreto dei numeri irrazionali. C’è poi la relazione in cui è l’allievo che “distrugge” il maestro per prenderne il posto. A Praga un “mendicante” si presenta alla porta del più grande astronomo del tempo, Tycho Brahe. Dopo avergli offerto ospitalità, Brahe si rende conto che il ragazzo è particolarmente dotato per la matematica e lo sceglie come suo assistente. Keplero distruggerà l’intera sua opera. Ma vi è una terza specie di relazione accolta da chi scrive: quella di reciprocità tra docente e discente. Una relazione questa che, in quanto generativa, è destinata a rafforzarsi col passare del tempo, nonostante le momentanee interruzioni. Una condizione, però, va soddisfatta per rendere pervia questa via: che si prendano le distanze dal paradigma cartesiano che accoglie il dogma della avalutatività della conoscenza, cioè della separazione, di ascendenza positivista, tra fatti e valori.
Ce lo fa capire Aristotele quando nel Libro VI dell’Etica Nicomachea, al seguito di Platone, si chiede se sia possibile insegnare la virtù. La risposta che lo Stagirita dà è che le virtù non si possono insegnare, ma si può educare ad esse. (G. Savagnone, Educare oggi alle virtù, Elledici, 2011). Come? Seguendo gli uomini virtuosi (i phronimoi), le cui pratiche di vita indicano come prendersi cura dell’altro, affinché il giovane apprenda ad aver cura della vita. Ci ricorda Seneca che “si può stare al mondo o vivere”. La scuola deve educare a vivere, cioè a far comprendere che tutte le virtù indicano un rapporto di sé con sé e di sé con gli altri. (L. Mortari, A scuola. L’arte di educare, Mimesis, 2025).

Il ruolo del sapere
Se alla Scuola in quanto istituzione per il bene comune si chiede di farsi carico della sola istruzione, allora l’orizzonte etico del deontologismo (eventualmente rinforzato con elementi di utilitarismo) è più che sufficiente alla bisogna. Ma se la Scuola ha da essere, in primis, luogo di educazione, cioè di coltivazione dei talenti, non si può fare a meno di ritornare alla matrice dell’etica delle virtù di impianto aristotelico, necessariamente rideclinata e saggiamente attualizzata. Perché il maestro, accanto ai contenuti della propria disciplina, deve saper trasmettere i motivi dell’amore per ciò che si studia e il ruolo che quel sapere occupa nella vita umana.

Questo testo è in corso di pubblicazione su “Nuova Secondaria”

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