Cucire speranze in Tunisia: «Così noi artigiane possiamo ripartire»

Grazie ai fondi Sumud, il progetto di resilienza, innovazione e sostenibilità sostenuto dall’Italia, microimprese al femminile riescono a offrire opportunità in un comparto cruciale per l’economia
September 23, 2025
Cucire speranze in Tunisia: «Così noi artigiane possiamo ripartire»
La ZwiZwi Collection, piccola impresa tessile di Sfax, la “capitale economica” della Tunisia, ricicla ogni tipo di filato: jeans, coperte, cappotti, sciarpe e vestiti in lana, cotone, lino e velluto, come pure abiti d’epoca in raso e tappetini per la preghiera islamica in flanella. La titolare, Ines Louizi, mostra con orgoglio i capi raccolti in settimana tra gli scarti delle fabbriche tessili a cui fa visita nel suo consueto giro di perlustrazione settimanale. «Torneranno a vita nuova», promette riponendoli nei sacchi di iuta in un angolo del suo laboratorio nel sobborgo di Teniour.
Nella stanza accanto, le sue collaboratrici sarte lavorano come api operaie, veloci e instancabili, alle macchine da cucire per trasformare scampoli di stoffa tagliata e sfilacciata vestiti nuovi, accessori e complementi d’arredo. Dall’attaccappanni pendono magliette in stile arabo andaluso, un poncho e due tuniche da cerimonia. Sullo scaffale, già pronti per essere trasferiti al negozio in centro, ci sono anche cuscini, stoini, pouf, zaini, borse e strutture in tessuto per lampadari. La donna, 50 anni, racconta di essere stata educata al riciclo dall’infanzia. «La mia famiglia di origine era povera – confida – e sono cresciuta con l’idea che, per necessità, non si buttare via niente».
Ines Louizi, 50, con la figlia Janette Khlif, 21, nella sartoria di Teniour, alle periferia di Sfax
Ines Louizi, 50, con la figlia Janette Khlif, 21, nella sartoria di Teniour, alle periferia di Sfax
È in casa, mentre sfilava l’ennesima coperta di lana colorata della nonna, che gli è venuta in mente l’idea di fare del riciclo dei tessuti il cuore di una piccola attività imprenditoriale locale. L’anello chiave della sua microazienda, una di quelle che hanno beneficiato di Sumud, il progetto di resilienza, innovazione e sostenibilità delle imprese tunisine sostenuto dal ministero degli Affari Esteri attraverso l’Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e realizzato sul territorio da Avsi, Oxfam, Shanti e Apad, non è tuttavia tra le mura colorate dell’atelier allestito alla periferia di Sfax. «I panni raccolti tra gli scarti di fabbrica – spiega – vengono distribuiti alle donne della comunità locale che li lavorano a casa. A loro chiedo di tagliarli, scucirli o sfilarli per ridurli in pezzi o filati da organizzare in base alla forma e al colore in modo da facilitare il processo di manifattura di cui si occupano le sarte in laboratorio». Le donne che, oggi, fanno parte, seppure in remoto, della rete di artigiane costruita da Ines sono otto. « Agli inizi erano solo tre ma con il passaparola sono riuscita nel tempo ad ampliarla», sottolinea. «A ciascuna di loro – insiste – offro una piccola paga». Dettaglio, quest’ultimo, non secondario.
Sfax, situata a 270 chilometri a sud di Tunisi, è la seconda città più grande della Tunisia e il più importante polo industriale del Paese. Forte, qui, è la produzione agricola, in particolare di olio d’oliva, l’industria della pesca e la lavorazione dei fosfati (che vengono poi esportati) e proprio il comparto del tessile. Vistose sono tuttavia le sacche di povertà e disoccupazione. Janette Khlif, la figlia ventunenne di Ines, sottolinea l’entusiasmo con cui la madre porta avanti la sua impresa. «Quando la vedi uscire per il consueto giro delle fabbriche che devono disfarsi degli scarti, la vedi felice come se stesse andando a fare shopping per le strade del lusso». Eppure, le vie della zona industriale di Sfax non hanno nulla a che vedere con le vetrine luccicanti dei centri commerciali. Gli avanzi della produzione sono spesso ammassati sui teli adagiati tra la polvere ai lati delle strade. «La mamma, pur di recuperare qualche capo – continua Janette–, decide talvolta di lavarlo prima di farlo lavorare». «A scavare tra i rifiuti tessili – continua – si possono trovare anche alcuni pezzi preziosi ». Molto probabilmente, arrivati dall’Europa.
Secondo alcune stime gli scarti legati alla produzione di articoli di tappezzeria e abbigliamento nelle aree di Sfax, Monastir e Mahdia sono di circa 31mila tonnellate all’anno. L’equivalente, per semplificare, di circa 150 milioni di t-shirt. A questi si aggiunge la valanga di vestiti di seconda mano che arriva dall’Europa. La Tunisia rappresenta insieme ad altri Paesi africani come Angola, Kenya, Repubblica Democratica del Congo, Ghana and Benin la principale “pattumiera” degli abiti dismessi dai guardaroba europei. Fenomeno dal forte impatto ambientale: i capi che non riescono a essere rivenduti vengono spesso abbandonati sul terreno, sporcano i campi, finiscono nel mare. Se quelli sintetici vengono bruciati, come accade facilmente, possono contaminare l’aria e le falde acquifere. È questo il motivo per cui è importante riutilizzarli per creare nuove fibre.
La speranza di Ines e della sua giovane “erede”, oggi studentessa di Business Intelligence alla North American Private University di Sfax, è far crescere la loro piccola realtà fino a farla diventare una vera e propria fabbrica dei tessuti riciclati. «Vorrei poter acquistare i macchinari che servono a pressare gli scampoli di qualsiasi tipo di stoffa – spiega l’imprenditrice – fino a farne dei mattoncini utilizzabili negli ambiti più disparati». Nell’ambito del design e dell’arredamento, per esempio, oltre che nel giardinaggio e nell’edilizia “eco-sostenibile”. Le idee non mancano a mamma e figlia. La voglia di lavorare, per il bene della propria famiglia e della comunità, oltre che dell’ambiente, nemmeno.

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