sabato 8 febbraio 2014
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Quello che segue è il testo dell’omelia pronunciata da monsignor Pietro Parolin, allora nunzio in Venezuela, il 28 settembre 2011 a Canale d’Agordo, nel 33° anniversario della morte di Giovanni Paolo I. Il testo è stato pubblicato su Avvenire del 3 settembre 2013.

L’omelia su Papa Luciani: «Immagine viva del Buon Pastore»

Cari fratelli e sorelle, trentatrè anni ci separano dall'improvvisa morte di papa Giovanni Paolo I, che tanto profondamente ci sorprese e ci addolorò – io cominciavo il quinto anno di Teologia nel Seminario di Vicenza e la notizia ci raggiunse, come un fulmine a ciel sereno, al termine della Messa mattutina – come ci aveva sorpreso, almeno il sottoscritto che poco conosceva il patriarca di Venezia, ma rallegrato, la sua rapida elezione al Soglio di San Pietro, dopo un solo giorno di Conclave, un mese prima. Trentatré giorni è durato il suo pontificato. Questa combinazione dei due trentatrè – i giorni e gli anni – ci porta ovviamente a tornare a sottolineare quello che altri hanno già notato, e cioè la coincidenza con il tempo dell'esistenza terrena di Nostro Signore Gesù Cristo, il quale «passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo» (Atti 10, 38) e, a partire da questa coincidenza, il fatto che papa Luciani fu davvero, per la Chiesa e per il mondo, un'immagine viva di Gesù, il Buon Pastore, il Pastore «bello» come dice il Vangelo. Per questo papa Luciani è entrato ed è rimasto nel cuore della gente. Perché conoscere Gesù, incontrare Gesù, amare Gesù e lasciarsi amare da lui è l'aspirazione segreta di ogni cuore, anche dei cuori indifferenti o tormentati o perfino ribelli; [...] Solo chi può confessare in tutta verità: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (cfr. Gal. 2,20), può trovare le vie del cuore della gente, toccare questo cuore, consolarlo, trasformarlo, convertirlo, accendendo in esso un raggio di luce e lasciando una traccia indelebile. Così ha fatto papa Giovanni Paolo I, col suo insegnamento, col suo esempio, col suo sorriso, con la sua umiltà, quell'umiltà che «può essere considerata il suo testamento spirituale» e che «lo rese capace di parlare a tutti, specialmente ai piccoli e ai cosiddetti lontani», come ha detto Benedetto XVI il 28 settembre di tre anni fa, aggiungendo che questa parola, humilitas, da sola sintetizza «l'essenziale della vita cristiana e indica l'indispensabile virtù di chi, nella Chiesa, è chiamato al servizio dell'autorità». Così ha fatto Giovanni Paolo I, fermo nelle decisioni che il ministero episcopale gli imponeva di assumere, ma accentuando sempre nel suo magistero l'aspetto della misericordia. In questo anniversario così significativo, sono vivamente lieto di essere qui a Canale d'Agordo, al seguito di una vera folla di pellegrini che quest'estate hanno visitato i luoghi natali dell'amatissimo e indimenticabile Papa e ringrazio il Signore per questo che considero un suo regalo; ringrazio anche il vostro pastore per avermi dato la possibilità di realizzare un desiderio che coltivavo da tempo. A voi qui presenti vorrei dire una parola di congratulazione, pensando che la grandezza di papa Luciani è radicata fortemente, come i pini e gli abeti delle vostre stupende montagne, sul terreno della fede della comunità cristiana di queste terre in generale ma, in particolare, sul terreno della fedeltà, della generosità, dello zelo pastorale, solido e sempre discreto, di un intero presbiterio diocesano, del quale egli è, in certo senso espressione; e una parola di incoraggiamento di fronte alle difficoltà che oggi sperimentiamo: Dio – come ci ricordava lui – ha sempre gli occhi aperti e sa dove ci guida, anche se l'oscurità della notte impedisce a noi di vedere chiaramente davanti e ci costringe a procedere a tentoni. Sono molto contento, cari fratelli e sorelle che vi dedicate al ministero della catechesi, di incontrarvi e di pregare con voi e per voi. Tanto più che, nel mio servizio alla Chiesa universale e al Papa, ho conosciuto realtà dove, senza l'opera dei catechisti, il Vangelo non avrebbe potuto essere annunciato né la fede mantenuta e alimentata. Penso all'Africa, ad esempio, ma anche al Venezuela, dove attualmente mi trovo. Nelle enormi parrocchie cittadine, come a Caracas o Maracaibo, che raggiungono anche i 100mila abitanti e includono popolosi quartieri popolari, denominati barrios, segnati normalmente da povertà e violenza, sono i catechisti che assumono la responsabilità delle piccole cappelle e assicurano la presenza della Chiesa, insegnano il catechismo in preparazione ai Sacramenti, presiedono la celebrazione della Parola quando non c'è il sacerdote per la Messa e svolgono altri compiti pastorali. E così fanno nelle parrocchie rurali, territorialmente molte estese, nelle pianure e nelle Ande venezuelane. Sono realtà, ripeto, molto povere e spesso afflitte dalla violenza; al riguardo, non vorrei tralasciare di menzionare la sensibilità che papa Luciani aveva per il tema della povertà del Sud del mondo. Non so, se come ho trovato riportato da qualche parte, egli avesse davvero l'intenzione di scrivere un'enciclica su «I poveri e la povertà nel mondo», che la morte gli avrebbe poi impedito di fare, ma, prendendo possesso della sua Cattedrale di San Giovanni in Laterano non mancò di accennare alla questione: «Roma sarà una vera comunità cristiana se Dio vi sarà onorato non solo con l'affluenza dei fedeli alle chiese, non solo con la vita privata vissuta morigeratamente, ma anche con l'amore ai poveri. Questi – diceva il diacono romano Lorenzo – sono i veri tesori della Chiesa. Vanno pertanto aiutati, da chi può, ad avere e ad essere di più, senza venire umiliati e offesi con ricchezze ostentate, con denaro sperperato in cose futili e non investito - quando possibile - in imprese di comune vantaggio». Nell'ultima udienza del 27 settembre, dedicata alla carità, ricordava che i popoli della fame interpellano quelli dell'opulenza, invitando a chiederci, e per primi noi uomini di Chiesa, se abbiamo veramente adempiuto al comandamento: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Benedetto XVI ha chiamato il suo predecessore «un impareggiabile catechista». Egli ci ha insegnato a fare catechesi – che è l'esposizione sistematica delle verità di fede, l'approfondimento ordinato del mistero cristiano ed è proprio ciò che la distingue da tutte le altre forme di presentazione della Parola di Dio, come diceva Paolo VI al termine del Sinodo dei vescovi del 1977 – in modo semplice, diretto, comprensibile a tutti, con lo stesso affetto di una madre che si china a spezzare il pane per i suoi numerosi figli. A sua volta, papa Giovanni Paolo II ha scritto nella Catechesi tradendae che Giovanni Paolo I - «ha dato l'esempio di una catechesi centrata sull'essenziale e, al tempo stesso, popolare, fatta di gesti e di parole semplici, capace di toccare i cuori». I testi della Sacra Scrittura che abbiamo appena ascoltato ci danno indicazioni preziose al riguardo a questo servizio ecclesiale. Nel brano di Luca sono raccolte le «esigenze della vocazione apostolica», le condizioni per stare con Gesù ed essere suoi discepoli. Il Vangelo inizia dicendo che: «mentre andavano per la strada», indicazione di grande rilevanza, perché non si tratta qui di una passeggiata o di un semplice spostamento da un luogo a un altro, ma del viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Gesù sa che a Gerusalemme lo aspettano sofferenza e morte. Ma non si tira indietro. Anzi, vi si dirige «decisamente», letteralmente «rende duro il suo volto per andare a Gerusalemme». L'espressione esprime la consapevolezza, la risolutezza e la determinazione con cui Gesù prende la decisione di affrontare la sua missione di Servo sofferente. In questo contesto vanno collocate le risposte che Gesù dà a questi tre anonimi che incontra. Il primo è un generoso che, sicuramente affascinato dalla sua figura, si propone di seguirlo. Gli altri due sono chiamati da Gesù stesso ma il loro «sì» non è totale e pieno, bensì condizionato, legato a compromessi. Gesù intende far comprendere loro che la sua scelta radicale non può non avere ripercussioni sulla loro vita. È una scelta che implica privazioni, rischi, mancanza di sicurezze terrene: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo». Una vita comoda e tranquilla non si addice a chi intende mettersi al suo seguito. È una scelta che non ammette lentezze e ripensamenti, ma esige una cammino deciso e rettilineo: «Nessuno che ha messo meno all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio». In sintesi, queste risposte indicano la «radicalità» con cui Gesù va seguito. Luciani parlava di «totalitarismo». Fin da quando il giovane don Albino faceva il catechista ai ragazzi della parrocchia o della scuola gli piaceva usare l'immagine del viaggio per descrivere l'avventura della vita cristiana, che è l'avventura dell'amore, come confiderà lui stesso da Papa, e diceva: «Quando si dice "Ama il Signore con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze" (cfr. Dt. 6,49) si dice: devi assolutamente sforzarti di essere santo. Qui c'è un totalitarismo: lo dice tante volte quell'ex toto, ex tota, che evidentemente il Signore ci vuole totalitari nella via della santità». «Radicali», «totalitari» nell'amore di Dio, nella sequela di Gesù, nella via della santità: ecco, a mio sommesso parere, la prima condizione, imprescindibile, per essere catechisti. Di qui deriverà quell'entusiasmo, quella convinzione che devono caratterizzare il catechista: «Convinto che la sua missione è una cosa grande, che le cose che insegna sono vere, che i fanciulli miglioreranno. Queste convinzioni daranno anima, ali al suo apostolato: «Non basta che dica, ma, vivendo, deve invogliare, appassionare e trascinare» (Catechesi in briciole, San Paolo, 2009, p. 33). Un brevissimo accenno alla prima lettura: al catechista è affidato il compito, non facile in questi tempi appiattiti quasi esclusivamente sulle realtà terrene e materiali, di tenere aperto l'orizzonte ultimo verso il quale siamo in cammino, senza il quale perde consistenza la stessa vita cristiana: l'orizzonte della comunione definitiva con Dio, l'orizzonte della vita eterna. Neemia, l'esiliato ebreo che aveva una buona posizione alla corte del re Artaserse, avrebbe potuto benissimo chiudersi nell'egoismo di ciò che possedeva e dimenticare la patria. Aiutate anche voi, cari catechisti, i fanciulli, i ragazzi e i giovani che vi sono affidati a «non dimenticare la patria»! Giovanni Paolo I, che questa patria ha già raggiunto, dal cielo preghi per voi, preghi per noi, sacerdoti, preghi per tutti i presenti e per l'intera Santa Chiesa, che egli amò di un grande, fermissimo amore.Da parte nostra, benediciamo il Signore e preghiamo affinché un giorno possiamo invocare come beato questo grande uomo di Chiesa, che da Canale d'Agordo è arrivato alla Cattedra di Pietro, dalla Chiesa locale di Belluno a quella universale come vescovo di Roma. Così sia.

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