mercoledì 12 ottobre 2022
Parla lo storico direttore del quotidiano bolognese dal 1961 al 1967. «Le nostre cronache furono uno strumento per molti vescovi non avvezzi a parlare in latino per entrare nel vivo dei dibattiti»
Raniero La Valle

Raniero La Valle - Siciliani

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Dalle pagine del quotidiano bolognese L’Avvenire d’Italia ha raccontato il Concilio da “vicino”. Un quotidiano che è stato in un certo senso il “progenitore” assieme a un’altra memorabile testata l’ambrosiano L’Italia del nostro attuale Avvenire, nato nel 1968 dalla storica fusione dei due fogli. È la storia del romano Raniero La Valle, classe 1931, che si trovò, allora 31enne, per incarico del cardinale di Bologna di quel tempo, Giacomo Lercaro, a guidare la testata fino al 1967. «Fui nominato direttore l’anno precedente, nel 1961, succedendo a Raimondo Manzini che fu chiamato a dirigere L’Osservatore Romano», racconta. E il Concilio di cui martedì scorso ricorreva il 60° di apertura (1962-2022) è «ancora da attuare e applicare per la sua ventata di freschezza e profezia. Quell’assemblea di 2.500 vescovi cambiò il volto della Chiesa nel mondo», sostiene l’allora direttore.

La Valle trasferì dal 1963 quasi in “solido” buona parte della redazione bolognese lungo le sponde del Tevere in occasione dell’assise ecclesiale (fino alla sessione conclusiva del 1965) che cambiò il volto della Chiesa. E proprio in quegli anni si avvalse di un’eccellente squadra di giornalisti: molti dei quali destinati a fare importanti carriere nel campo della comunicazione come Albino Longhi, Vittorio Citterich e Giancarlo Zizola.

«Tra i meriti credo di quella esperienza alla guida del quotidiano nazionale che aveva allora un’ampia diffusione nel Nord-Est e aveva tra i suoi lettori in maggioranza i cattolici praticanti – racconta dalla sua abitazione romana quasi scherzando – c’è quello di aver “raccontato il Concilio ai vescovi che non sapevano il latino”. Essendo il latino la lingua ufficiale del Vaticano II e che tutti i padri conciliari erano tenuti a usare per i loro interventi, il nostro Avvenire d’Italia con le sue dettagliate cronache in italiano rappresentò per molti di loro, penso in particolare ai presuli sudamericani, asiatici o africani lo strumento più utile e quasi necessario per capire i lavori e le dinamiche delle discussioni in seno al Concilio».

Quale fu il legame del quotidiano con i suoi lettori in quegli anni?
Da subito si instaurò un rapporto diretto con quanti che volevano scavare nel profondo le questioni in agenda al Concilio. Ricordo che alla fine delle sessioni, quando i vescovi tornavano nelle loro sedi residenziali, centinaia di loro ci scrivevano per ringraziarci delle cronache. La nostra era un’informazione improntata allo spirito di servizio.

E ha questo proposito ha qualche particolare ricordo?
A volte, quando c’era una discussione su questioni importanti come la pace o la guerra avvertivamo i nostri lettori e dicevamo loro: “Domani alla tale ora si vota. Pregate perché prevalga la decisione migliore”. Era il nostro un modo per fare entrare i lettori quasi dentro l’Aula di San Pietro.

“L’Avvenire d’Italia” incarnò in quel frangente una risorsa preziosa per i vescovi italiani. Ci può spiegare il perché?
Paolo VI, tramite il monsignor sostituto della segreteria di Stato Angelo Dell’Acqua, aveva deciso di offrire a tutti i padri conciliari, circa 2.500, l’abbonamento al nostro giornale durante tutte le sessioni fino alla conclusiva del 1965. Da allora, ogni mattina prima di entrare in aula, i vescovi leggendo il nostro quotidiano potevano farsi un’idea più ampia dei lavori conciliari anche riguardo a quelle discussioni a cui non avevano partecipato o di cui non avevano capito troppo bene il dibattito in latino. Fu un problema per noi, in quegli anni, il fatto che la nostra testata fosse quasi sempre in sintonia con la maggioranza conciliare di cui una delle voci più autorevoli era proprio, tra l’altro, uno dei quattro moderatori di quell’assemblea (gli altri erano Döpfner, Suenens e Agagianian), il cardinale Giacomo Lercaro, che non coincideva però spesso con l’episcopato italiano, il quale era invece molto più cauto. E questo ci mise in qualche difficoltà. Ciò accadeva pure con quei vescovi spagnoli che si muovevano anch’essi nell’ala della minoranza. Quindi divenne per noi anche una questione di equilibrio: serviva dare voce a tutti.

A 60 anni di distanza dall’inizio di questo evento, quale istantanea si porta ancora oggi nel cuore?
L’impressione forte di quegli anni fu anche il fatto che molti dei vescovi dichiararono di essersi rimessi a studiare la teologia, come avevano fatto da giovani, per approfondire i temi dibattuti. Così l’Aula di San Pietro divenne, secondo la felice definizione di un presule, «un grande seminario dove i vescovi erano tornati ad essere degli scolari».

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