mercoledì 14 aprile 2021
Il rito sarà presieduto da Semeraro. Il giorno è l’anniversario della storica visita nel 1993 di san Giovanni Paolo II con l’invettiva contro la mafia: «Convertitevi, verrà il giudizio di Dio»
Il giudice Rosario Livatino

Il giudice Rosario Livatino - Ansa

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Sarà domenica 9 maggio il giorno della beatificazione, nella Cattedrale di Agrigento, del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990. Il 22 dicembre papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto che ne riconosce il martirio “in odio alla fede”. Ieri l’annuncio della data da parte dell’arcidiocesi siciliana assieme ai particolari sul rito. A presiedere la celebrazione sarà alle 10 il cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi.

Il 9 maggio è una data strettamente legata alla figura di Livatino e di un altro santo. È infatti l’anniversario della visita nel 1993 di san Giovanni Paolo II ad Agrigento. E della sua famosa “invettiva” contro la mafia, con parole molto forti entrate ormai nella storia. «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!».

Un intervento non previsto, quello di papa Wojtyla, al termine della Messa. Un ammonimento che è strettamente legato all’incontro che aveva avuto poche ore prima coi genitori di Livatino. «Una cosa è leggerlo sui giornali o vederlo alla televisione, ma altro è vedere direttamente quel volto di madre dolorosa», disse al termine dell’incontro, come ci raccontò Ida Abate, professoressa di latino e greco del giovane Livatino, per tanti anni custode della sua memoria, presente quel giorno. Papà Vincenzo e mamma Rosalia toccarono il cuore del Papa.

La madre non disse una parola, mentre per tutto il tempo dell’incontro il Papa le teneva le mani, guardandola con tenerezza e sofferenza. Il papà continuava a dire: «Santità, avevamo solo lui, ce lo hanno ammazzato». «Non dimenticherò mai lo sguardo del Papa pieno di partecipazione e affetto», ci testimoniò ancora la professoressa. L’anziano papà ebbe anche parole di speranza. «Hanno reciso un fiore, ma non potranno impedire che venga la primavera». E anche la professoressa riuscì a parlare, ricordando Tertulliano: “Dal sangue dei martiri il seme di uomini nuovi”. «Il Papa mi guardò con molta attenzione, come per dire “è vero”. Poi disse che Rosario era “uno dei martiri della giustizia e indirettamente della fede”».

L'autovettura di Livatino dopo l'agguato mortale

L'autovettura di Livatino dopo l'agguato mortale - Ansa

Dopo 28 anni quelle parole si sono concretizzate e il grande Papa e il “piccolo giudice” si rincontrano, ancora il 9 maggio. In preparazione all’evento saranno predisposte altre iniziative di carattere civile ed ecclesiale sulla figura del prossimo beato, sul suo essere “giudice giusto”, capace di coniugare giustizia e carità. Livatino aveva appena 37 anni, ma aveva già svolto importantissime indagini contro la mafia, la corruzione, gli intrecci tra clan, politica ed economia.

Papa Francesco nell’udienza al Consiglio superiore della magistratura, il 17 giugno 2014, lo aveva definito «testimone esemplare, giudice leale alle istituzioni, aperto al dialogo, fermo e coraggioso nel difendere la giustizia e la dignità della persona umana». Venne ucciso mentre da solo, sulla sua utilitaria, si stava recando da Canicattì, doveva viveva coi genitori, al tribunale di Agrigento. Senza scorta, che, pur cosciente delle minacce, non aveva mai voluto perché, spiegava «non voglio che altri padri di famiglia debbano pagare per causa mia», accettando così il martirio.

La motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpire il servo di Dio, si legge nel documento che ha annunciato la decisione di papa Francesco, «fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Durante il processo penale emerse che il capo provinciale di Cosa Nostra Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile, lo definiva con spregio “santocchio” per la sua frequentazione della Chiesa. Dai persecutori era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante».

Il cadavere di Livatino

Il cadavere di Livatino - Ansa

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