venerdì 29 gennaio 2021
La testimonianza di Caterina, nipote del sacerdote ucciso a San Martino di Caprara nel 1944 Il 21 gennaio scorso il via libera del Papa al riconoscimento del martirio: il parroco sarà presto beato
Il racconto degli ultimi drammatici momenti dello zio prete. «Andava dai tedeschi a chiedere di non infierire sui civili Si offriva al posto dei condannati a morte tanto che spesso i soldati, turbati, non eseguivano le sentenze capitali»

Il racconto degli ultimi drammatici momenti dello zio prete. «Andava dai tedeschi a chiedere di non infierire sui civili Si offriva al posto dei condannati a morte tanto che spesso i soldati, turbati, non eseguivano le sentenze capitali»

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«Quelli che lo hanno conosciuto, lo hanno definito “l’angelo di Marzabotto”. E secondo me è la definizione migliore, perché lui era davvero un angelo, sempre in giro con la sua bicicletta per soccorrere tutti quelli che avevano bisogno. E furono tanti, centinaia, forse migliaia!». Caterina Fornasini, 82 anni davvero ben portati, parla così dello zio don Giovanni Fornasini, del quale il Papa la settimana scorsa ha riconosciuto il martirio: quindi sarà proclamato beato perché, parroco di Sperticano a Monte Sole «fu ucciso, in odio alla fede, a San Martino di Caprara, il 13 ottobre 1944». Tanto emozionata quanto felice, Caterina accetta volentieri di ricordare quei giorni, pur terribili, dell’ottobre 1944 che precedettero la morte dello zio. La memoria è ancora vivida, anche se aveva solo 6 anni.

«Mio zio non aveva paura di nessuno – ricorda – e spesso andava dai tedeschi per chiedere che non infierissero sulla popolazione civile. Se c’erano condannati a morte, chiedeva di lasciarli andare e si offriva lui al loro posto; e spesso quei soldati, colpiti nella coscienza, non eseguivano le condanne. Le cose però cominciarono a cambiare quando, l’8 ottobre, in canonica irruppero i tedeschi e insediarono lì il comando delle SS. Io con mia madre e la nonna eravamo sue ospiti in quella canonica, come altri sfollati; i tedeschi vollero che le camere fossero lasciate a loro e ci dovemmo trasferire nel salone al piano terra. Quando don Giovanni tornò e vide quello che era successo, si arrabbiò molto, ma poi sembrava che tutto fosse tornato tranquillo». «Il 12 sera però – continua Caterina – i tedeschi vollero organizzare una festa, e volevano che partecipassero anche alcune nostre ragazze. Solo due accettarono, e don Giovanni volle accompagnarle per essere sicuro che non succedesse loro niente di male. La festa era in un edificio vicino alla canonica, lo zio andò e a mezzanotte le riportò. Poi però volle tornare dove c’era la festa e lì non si sa cosa sia accaduto, ma temo che ci sia stato un litigio fra lui e i comandanti tedeschi».


«Aiutava chiunque avesse bisogno senza guardare a condizione o parte politica»

Da lì, secondo Caterina, le cose precipitarono. «La mattina dopo il comandante venne da noi e chiese dello zio (“Dove pastore?”) – ricorda emozionata – dicendo che avevano appuntamento per andare insieme a San Martino di Caprara. Noi non sapevamo esattamente cosa fosse successo là, ma tante voci dicevano che c’era stato qualcosa di terribile. E lo zio tante volte aveva chiesto ai tedeschi di andare in quei luoghi, per assistere i feriti e seppellire i morti, ma non gli era stato permesso. Quando comparve, il suo viso era trasfigurato, come se non avesse dormito; ci chiese di preparargli il libro della liturgia, i paramenti e l’aspersorio per le benedizioni. Ma vedendolo così, mia mamma gli disse “Giovanni quando torni?” E lui: “Quando torno mi vedrete”. Anche la nonna disperata lo supplicava di non andare, ma lui ci salutò bruscamente e partì. Lungo la strada incontrò un’altra donna che gli disse che rischiava, perché era disarmato, ma lui mostrò la corona del Rosario e rispose: “Questa è la mia arma”». Don Giovanni non tornò più dalla sua famiglia. «La sera, quando arrivarono a cena i comandanti tedeschi, chiedemmo loro dove era il “pastore” – ricorda la nipote – e loro urlarono: “Pastore kaputt!”. A questa frase, la nonna rimase impietrita, e solo dopo parecchio si mise a piangere; ma da quel momento non l’ho mai più vista sorridere».


«Fu mio padre a trovarlo morto il 22 aprile 1945, riverso su un mucchio di cadaveri»

Anche il ritrovamento del corpo di don Fornasini fu una vicenda lunga e dolorosa. «Nessuno ne sapeva niente, neanche l’arcivescovo di Bologna il cardinale Giovanni Battista Nasalli Rocca – dice Caterina –. Fu mio padre ad andare a cercarlo appena poté: il 22 aprile 1945, giorno dopo la liberazione di Bologna. Lo trovò riverso su un mucchio di cadaveri, dietro il cimitero di San Martino di Caprara, la testa staccata dal corpo, delle sue cose erano rimasti solo gli occhiali e l’aspersorio. Lo portò a Sperticano e fu seppellito nel cimitero del paese, poi il 13 ottobre, primo anniversario della morte, fu traslato nella chiesa, dove tuttora riposa». Nessuno sa esattamente chi abbia ucciso don Fornasini, «ma la ricognizione del corpo fatta nel 2011 accertò che la sua fu una morte lenta e dolorosa, probabilmente procurata con le bastonate».

Una violenza che testimonia un terribile odio verso quel prete “angelo”. E Caterina non vuole che suo zio sia definito “prete partigiano”. «Non era assolutamente un partigiano – sottolinea – ma un sacerdote che aiutava tutti, che si è speso per chiunque avesse bisogno, senza guardare a condizione o parte politica. Un angelo, appunto, che per questo fu ucciso».

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