venerdì 3 dicembre 2010
«Il 150° dell’Unità vede la Chiesa unita a tutto il Paese nel festeggiare l'evento fondativo dello Stato unitario e già questa constatazione è sufficiente per misurare la distanza che ci separa dalla breccia di Porta Pia e la parzialità di letture che enfatizzano remote contrapposizioni». L’introduzione del presidente Cei al Forum del Progetto culturale. IL TESTO DELLA PROLUSIONE
- Identità viva e presenza di Carlo Cardia
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I cattolici sono “soci fondatori” del nostro Paese, e l’Unità d’Italia – che è “un sentire comune circa le cose più importanti del vivere e del morire” – “resta una conquista preziosa e un ancoraggio irrinunciabile”. Sono questi i due binari principali attorno a cui si è articolato il saluto con cui il card. Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha aperto il 2 dicembre il X Forum del progetto culturale, in corso a Roma (fino al 4 dicembre), sul tema: “Nei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tradizione e progetto”. “Cogliere il contributo cristiano rispetto al destino del nostro Paese – ha ammonito il presidente della Cei – richiede una lettura della storia scevra da pregiudizi e seriamente documentata, lontana dunque tanto da conformismi quanto da revisionismi”. Da san Francesco d’Assisi, cui “si lega il ripetuto uso del termine Italia”, e santa Caterina da Siena, sono “innumerevoli le figure” che hanno dato “un incisivo contributo alla crescita religiosa e allo sviluppo sociale e perfino economico della nostra Penisola”, segno che “l’unico sentimento che accomunava gli italiani era quello religioso e cattolico”. Unità come risorsa. Nel 1861, “veniva generato un popolo”, e soprattutto veniva dimostrato che “lo Stato in sé ha bisogno di un popolo, ma il popolo non è tale in forza dello Stato, lo precede in quanto non è una somma di individui ma una comunità di persone, e una comunità vera e affidabile è sempre di ordine spirituale ed etica, ha un’anima. Ed è questa la sua spina dorsale”. “Ma se l’anima si corrompe, allora diventa fragile l’unità del popolo, e lo Stato si indebolisce e si sfigura”, ha denunciato il presidente della Cei, secondo il quale ciò accade “quando si oscura la coscienza dei valori comuni, della propria identità culturale”. Di qui la tesi centrale del presidente dei vescovi italiani: “Lo Stato non può creare questa unità che è pre-istituzionale e pre-politica, ma nello stesso tempo deve essere attento a preservarla e a non danneggiarla. Sarebbe miope e irresponsabile attentare a ciò che unisce in nome di qualsivoglia prospettiva”. Fermento nella pasta. “Quanto più l’uomo si ripiega su se stesso, egocentrico o pauroso, tanto più il tessuto sociale si sfarina, e ognuno tende a estraniarsi dalla cosa pubblica, sente lo Stato lontano”. “Ma è anche vero – ha puntualizzato il cardinale – che quanto più lo Stato diventa autoreferenziale, chiuso nel palazzo, tanto più rischia di ritrovarsi vuoto e solo, estraneo al suo popolo”. In questo scenario, “la religione in genere, e in Italia le comunità cristiane in particolare, sono state e sono fermento nella pasta, accanto alla gente; sono prossimità di condivisione e di speranza evangelica, sorgente generatrice del senso ultimo della vita, memoria permanente di valori morali. Sono patrimonio che ispira un sentire comune diffuso che identifica senza escludere, che fa riconoscere, avvicina, sollecita il senso di cordiale appartenenza e di generosa partecipazione alla comunità ecclesiale, alla vita del borgo e del paese, delle città e delle regioni, dello Stato”. La fede, cioè, “non può essere mai ridotta a religione civile” ma “è innegabile la sua ricaduta nella vita personale e pubblica”. Il “vivere retto”. Partendo da queste premesse, il card. Bagnasco ha tracciato una sorta di identikit della buona politica, rinnovando l’auspicio che “possa sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che sentono la cosa pubblica come fatto importante e decisivo, che credono fermamente nella politica come forma di carità autentica perché volta a segnare il destino di tutti”.
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