Le voci delle nostre “periferie umane”
aprono il Festival della missione a Torino

Al via nel capoluogo piemontese il grande incontro dedicato alla trasmissione della fede nel mondo. Primo atto è stato il pellegrinaggio laico attraverso le tante fragilità che oggi attendono un segno di speranza da chi porta il Vangelo nel mondo
October 9, 2025
Le voci delle nostre “periferie umane”
aprono il Festival della missione a Torino
Si pensa spesso che per essere missionari si debba andare dall’altra parte del mondo, verso orizzonti lontani. Non sempre è così: prendersi cura dell’Umanità è possibile anche a partire dal cortile sotto casa. Lo racconta bene il Festival della Missione, iniziato ieri a Torino e in corso fino a domenica con testimonianze, eventi di piazza, incontri. Primo atto dell’iniziativa è stato uno sforzo di osservazione della realtà a due passi da casa: con un “Pellegrinaggio laico per le periferie umane” decine di persone hanno percorso zone di Torino caratterizzate da specifiche fragilità. Lo hanno fatto con guide d’eccezione: persone che hanno attraversato dipendenze, reclusioni, abbandono, solitudine, e che poi hanno cambiato vita. Ieri hanno raccontato rinascite rese possibili da quello che è il cuore di ogni missione: le relazioni.
Stefano, ad esempio, ha 59 anni e oggi vive con la Comunità Papa Giovanni XXIII a Bosco Nero (nel torinese). Ieri ha raccontato alcuni pezzi della sua vita. «Vengo da una famiglia un po’ disastrata, da due genitori assenti. A 12 anni ho iniziato a fare uso di eroina e poi non ho più smesso». A 20 anni Stefano entra per la prima volta in una comunità ma le cose non vanno bene: «Ho fatto dentro e fuori almeno 12 volte». Le sostanze continuano a essere una presenza costante, che distrugge anche la sua famiglia. La sua àncora, dice, sono stati alcuni legami. «I miei amici non mi hanno mai mollato. E poi i volontari della Papa Giovanni mi hanno convinto a rimanere con loro. All’epoca ero in strada, non avevo più nulla e non volevo più vivere. Loro mi portavano cibo e coperte, ma soprattutto mi chiamavano per nome e parlavano con me. Piano piano ho deciso di fidarmi di loro». Da tre anni Stefano è a casa in comunità. «Quelle persone sono diventate la mia famiglia».
Anche Mario, 45 anni, racconta di avere trovato una sua stabilità dopo anni di dipendenza. Nel suo caso, però, dal gioco. «A 30 anni si è rotta una relazione molto importante e io sono caduto in depressione», racconta. In quel periodo, per caso, gioca una partita di poker e vince. La sua vita cambia. «Quando uscivo con gli amici inventavo una scusa per tornare a casa e giocare. Saltavo uscite, cene, compleanni, sport. Spendevo il mio stipendio in un giorno. Le persone che avevo vicino hanno provato ad aiutarmi ma ci sono voluti anni. Tutto è cambiato quando ho incontrato il gruppo Abele: da due anni e mezzo non gioco più».
Favour, 31 anni, racconta che anche per lei «la salvezza è arrivata grazie a una persona». È nata in Nigeria ed è arrivata in Italia nove anni fa, da sola: «Del viaggio ricordo soprattutto la paura in mare. Sono stata fortunata perché non sono finita in prigione: in Libia molti vengono uccisi. Mi ritengo una sopravvissuta». Ora gode di una protezione internazionale, arrivata però solo dopo una lunga trafila burocratica. «Mi ha salvata un’operatrice che ha deciso di accompagnarmi nelle procedure. Senza di lei sarebbe stato impossibile». Ora Flavour è iscritta all’università, facoltà di Servizio sociale: «In Nigeria non avrei potuto studiare perché l’istruzione costa troppo».
La storia di Roberto, 81 anni, passa invece per più di vent’anni di carcere. «Quando sono entrato a Le Vallette (casa di reclusione torinese, ndr) avevo una carriera come corriere della droga. Organizzavo il trasporto dalla Colombia all’Europa, nascondevo la cocaina nei blocchi di marmo, in container di vetro, nei cavi elettrici». Poi il suo nome arriva alle autorità, viene arrestato. «In carcere mi sono messo a studiare perché i libri mi permettevano di evadere pur stando fermo. Mi hanno aiutato i miei compagni: quando dovevo preparare gli esami, loro guardavano la televisione senza audio per non disturbarmi». Roberto si è trovato anche faccia a faccia con le conseguenze di azioni che erano state anche sue. «Vedevo le crisi da astinenza da cocaina di tanti compagni. Quella che per me era solo una merce, per loro era il male». Da quando è uscito dal carcere, 12 anni fa, Roberto lavora con i migranti, grazie a un percorso compiuto con Caritas.
Un’altra testimonianza porta dentro al delicato tema del benessere mentale. A parlarne è Valentina: «Mi capita di conoscere l’amaro della solitudine come conseguenza dell’asperger, del bullismo e di diverse violenze subite. In quei momenti ho bisogno di essere consolata e accolta senza prediche o domande, con tenerezza». Valentina ha un diploma di una scuola superiore psico-sociopedagogica e descrive le sue passioni, il cinema e la psicologia, come canali che le hanno permesso «di trovare comunque felicità». Alla società dice che «non si sta affatto investendo sul benessere delle persone sofferenti».
Le storie di Stefano, Mario, Favour, Valentina possono essere conosciute anche da un altro punto di vista: quello di quanti si mettono accanto a chi sta vivendo una situazione di fragilità. È la testimonianza di Caterina: «Lavoro con minori stranieri da 15 anni e la mia professione mi obbliga a farmi tante domande. Oltre il portone della comunità le loro storie vengono a casa con me – racconta –. Toccare il dolore degli altri è faticoso e può essere sfiancante». Per Caterina, uno degli aspetti più difficili è il senso di impotenza. «Quanto ho iniziato pensavo di poter curare tutti i dolori dei ragazzi. Ora invece so che il nostro lavoro a volte funziona, a volte fallisce. Ma noi restiamo accanto alle persone che ci sono affidate anche quando le ferite sembrano troppo grandi. A volte, anche solo lo “stare” può essere una promessa di vita e di cambiamento».
Il Festival, il cui calendario è ricco di eventi, proseguirà fino a domenica: a chiuderlo sarà la Messa presieduta dall’arcivescovo di Torino, Roberto Repole.

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