Così Dio "illumina" il sapere: quattro testimoni aprono l'anno dell'Università Santa Croce
L'ateneo pontificio ha inaugurato l'anno accademico conferendo il Dottorato honoris causa al cardinale Kurt Koch, a Pierpaolo Donati, a Helmuth Pree e ad Anne Gregory

La Pontificia Università della Santa Croce ha inaugurato oggi il 41° anno accademico conferendo il Dottorato honoris causa a quattro personalità che hanno messo il proprio sapere a servizio dell’uomo e della Chiesa: il cardinale Kurt Koch, il sociologo e filosofo Pierpaolo Donati, il canonista Helmuth Pree e la studiosa di comunicazione Anne Gregory. A fare da cornice, le parole del gran cancelliere, monsignor Fernando Ocáriz, che hanno dato il tono dell’intera giornata: «L’università ha il compito di creare uno spazio di luce e di dialogo» e, insieme, «ha uno speciale bisogno di maestri», capaci di trasmettere non soltanto conoscenza ma «sapienza». È l’idea di un’Ateneo come comunità in cammino: «Una comunità di persone che percorrono insieme un cammino di ricerca della verità», già rivelata nella Parola di Dio, eppure da «riscoprire in ogni scienza» dentro le circostanze che interrogano il presente.

La cerimonia, aperta dalla Messa votiva dello Spirito Santo nella Basilica di Sant’Apollinare, ha avuto il suo cuore nell’Aula Magna, dove sono risuonate quattro brevi prolusioni diverse e convergenti allo stesso tempo. Il cardinale Koch, prefetto del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, ha ribadito il primato dell’ecumenismo come responsabilità intellettuale della teologia tutta: le discipline teologiche vanno pensate «al servizio della ricomposizione dell’unità della Chiesa». Una traiettoria di fondo, nella convinzione che esse «apportano il loro contributo peculiare», servendo «la responsabilità intellettuale e l’approfondimento della fede della Chiesa». Da qui la sottolineatura di un metodo: Chiesa e teologia «sono permanentemente interdipendenti» e, solo in questa dinamica, possono offrire un «contributo insostituibile all’impegno ecumenico».
Se Koch ha ricordato lo scopo, Donati ha tratteggiato la via. Nel tempo in cui il “virtuale” tende a sostituire l’analogico e a riscrivere l’asse della conoscenza, la sua proposta di filosofia relazionale è apparsa come un filo d’Arianna per uscire dal labirinto tecnologico senza demonizzarlo. Il punto, ha spiegato, è tenere insieme realtà organica e realtà digitale, riconoscendo «la relazione come dimensione costitutiva del reale e strumento per rigenerare il legame originario tra Uomo, Mondo e Dio». È questo criterio a permettere discernimento e umanizzazione: «La relazionalità di cui abbiamo bisogno è quella che ci consente di discernere ciò che ci umanizza da ciò che ci disumanizza». E, con un’eco ratzingeriana, l’invito ad «allargare il raggio della ragione», andando oltre la mera razionalità di scopo per aprirsi a quella relazionale. Sullo stesso orizzonte di un sapere che si fa legame, Helmuth Pree ha rimesso al centro una parola antica e attualissima: partecipazione. Alla scuola dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II, il giurista austriaco ha mostrato come la categoria della partecipazione, radicata nella grande tradizione filosofica e oggi presente nel diritto canonico, possa diventare un ponte tra teologia, filosofia, scienze umane e prassi giuridica. L’obiettivo è ricomporre ciò che la specializzazione ha separato: «Per recuperare la necessaria coerenza epistemologica e concettuale delle scienze sacre, si richiede una convergenza delle prospettive, senza sminuire l’autonomia scientifica di ciascuna disciplina». In questo dialogo, ha aggiunto, «il concetto di “partecipazione” può costituire un tale oggetto comune», capace di affinare anche il linguaggio giuridico-canonico e di ancorarlo alla vita reale del Popolo di Dio.

Di relazioni e ponti ha parlato, con accenti diversi, anche Anne Gregory. La comunicazione, ha ricordato, è un atto umano generativo: «È al centro di ciò che significa essere umani e ciò che tiene unita l’umanità». È «un atto di condivisione» e, per questo, domanda intenzionalità, etica, responsabilità. Nel tempo delle polarizzazioni e della disinformazione, la docente britannica ha indicato una vocazione professionale non rinunciabile: lavorare «con grazia e verità», sapendo che «Grazia e verità implicano il non aver paura di dire la verità al potere e di sostenere ciò che è giusto». Un programma che si traduce in ascolto, mediazione, promozione del bene comune: «Mira a promuovere il bene comune, non il beneficio di parte».
Il rettore, padre Fernando Puig, ha colto il senso unitario di questo mosaico di voci: i quattro nuovi dottori, ciascuno a suo modo, hanno cercato «di migliorare la vita degli altri, aiutare a trovare senso e trascendenza nelle diverse aree del sapere», onorando così la loro professione. Guardando al nuovo anno, l’invito a non farsi paralizzare dalla sproporzione delle sfide: serve «nuova energia e coraggio» per raggiungere «un numero sempre maggiore di persone e nuovi contesti attraverso i nostri strumenti privilegiati, la ricerca e l’insegnamento». È il respiro di una vocazione accademica che, nelle parole del rettore, è «autentica fonte di speranza e di gioia». Nella mattinata vissuta a Palazzo Apollinare fede e cultura si sono riconosciute alleate: l’ecumenismo come compito intelligente della teologia; la filosofia come arte di ricucire il reale nell’era del virtuale; il diritto come linguaggio di partecipazione e comunione; la comunicazione come forza di riconciliazione tra parole e azioni. In filigrana, il mandato consegnato dal Gran Cancelliere alla comunità accademica: custodire uno «spazio di luce e di dialogo» e farlo con maestri che sappiano accompagnare nella ricerca della verità. È la promessa di un’università che non si limita a descrivere il mondo, ma lo abita — con grazia e responsabilità — per trasformarlo.
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