Una Porta giubilare si è aperta fra le macerie della guerra in Libano
Nel sud del Paese la parrocchia di Tiro diventa chiesa dell'Anno Santo oltre ad essere hub umanitario. Il parroco padre Toufic: c'è sete di speranza nonostante le profonde ferite del conflitt

Uno striscione di tre metri dà il benvenuto a chi entra nella parrocchia di Sant’Antonio di Padova a Tiro. E annuncia che il Giubileo è cominciato anche nel sud del Libano, fra le macerie dei bombardamenti, le case devastate, gli sfollati che tornano. Il vicario apostolico di Beirut, il vescovo Cesar Essayan, alla guida dell’unica diocesi di rito latino che comprende l’intera nazione, ha voluto che una delle cinque chiese giubilari fosse nella parte del Paese dove sono più profonde le ferite della guerra fra Israele e Hezbollah: sia per i raid dal cielo, sia per l’invasione via terra dell’esercito di Tel Aviv scattata a ottobre. «A poche decine di metri dalla chiesa è arrivato un missile che ha abbattuto tredici abitazioni. E a duecento metri dal nostro convento, cominciano i quartieri bombardati dove interi palazzi sono crollati», racconta padre Toufic Bou Mehri, il frate minore francescano della Custodia di Terra Santa. È il parroco dei libanesi di rito latino del Libano meridionale. «Avere qui la Porta giubilare è una grazia - fa sapere - e dice la vicinanza di tutta la Chiesa alla nostra gente».

L’inizio dell’Anno Santo è stato preceduto dal cessate il fuoco entrato in vigore il 27 novembre e prorogato fino al 18 febbraio che per il sud del Libano, finito nel mirino degli attacchi d’Israele per smantellare le roccaforti e gli arsenali di Hezbollah, ha significato la ripresa della vita dopo l’esodo di massa di centinaia di migliaia di persone. «Però non si può parlare di vita normale - afferma il francescano -. Ancora le cicatrici sono troppo fresche: abbiamo avuto morti; facciamo i conti con la distruzione; portiamo sulla nostra pelle molte lacerazioni interiori che si affiancano a quelle esteriori. Eppure nella popolazione c’è grande speranza, viene da dire riprendendo il motto del Giubileo».

L’Anno Santo è stato aperto a Beirut dove si è trasferita la maggioranza dei cattolici che hanno lasciato anche i villaggi cristiani, non risparmiati dai razzi. «Sono state invitate tutte le parrocchie del Libano. Abbiamo fatto una processione lungo le strade della capitale fino alla Cattedrale. Un corteo che ha attirato l’attenzione della città», riferisce padre Toufic che in Italia è stato ospite della Fondazione Giovanni Paolo II, la ong per lo sviluppo e la cooperazione nata dalle diocesi della Toscana che in Libano coordina progetti della Cei e del ministero degli Esteri italiano.

Con il congelamento delle ostilità, la gente si è riappropriata delle terre da cui era evacuata. «Il giorno in cui è stata annunciata la tregua, le strade si sono subito riempite in direzione sud. Tutti volevano tornare. Persino quelli che avevano perso la propria casa: ci sono famiglie che hanno piantato una tenda fra i resti delle abitazioni pur di non restare lontani dalle località d’origine». La città di Tiro ha ripreso a popolarsi. E anche la parrocchia. Ben più complessa la situazione nel villaggio dove si trovano le altre due chiese in cui il frate minore fa servizio: quello di Deir Mimas, a cinque chilometri dal confine. «Qui non si può ancora risiedere. E chi c’è riuscito, lo ha fatto a proprio rischio e pericolo. Perché sono ancora presenti i soldati israeliani con i carri armati». Appena cinquanta le famiglie rientrate, sfidando l’esercito di Tel Aviv e la sorte. «Non potevano permettersi di pagarsi un affitto a Beirut», chiarisce padre Toufic.

È il bisogno a scandire il quotidiano. Accade nel dopoguerra. Succedeva già nelle settimane degli scontri e dell’invasione. E
la parrocchia di Sant’Antonio è diventata un hub umanitario dopo essere stato un rifugio per i profughi durante il conflitto.
«Offriamo sostegno e assistenza, senza guardare all’appartenenza religiosa», spiega il francescano.
Nessuna distinzione fra cristiani e musulmani. «E qui si tratta di musulmani sciiti - sottolinea -. Anzi, il tempo della guerra ha favorito l’incontro. Non possiamo negare che c’erano reciproci sospetti. Ma la miseria ci ha uniti. Spero che la ripresa non ci divida.
In mezzo alle difficoltà abbiamo conosciuto il vero volto dell’altro che era nascosto dietro i pregiudizi. E come comunità parrocchiale abbiamo aperto le porte anche agli sciiti che oggi sono ben riconoscenti di essere stati accolti dai cristiani».

La tregua è fragile. E tutti ne sono consapevoli. «Ancora Israele continua i suoi attacchi», sostiene il religioso. E lancia un appello alla comunità internazionale: «La tregua non è la pace che va ancora costruita e che deve assicurare a tutti il diritto di vivere nella propria terra, non soltanto ad alcuni. Il Libano desidera rimettersi in piedi dopo gli anni durissimi della crisi economica e dopo i mesi tragici della guerra. Non va lasciato solo».
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