Quanti sono e come vivono gli eremiti d’oggi, luci di Dio in borghi e città
Laici e laiche, preti, consacrati. C’è chi sta in luoghi remoti o in piccoli borghi. E chi in grandi città. Gli eremiti diocesani in Italia sono circa 500. Le storie di due eremite a Firenze e Gerace

Laici e laiche, sacerdoti o appartenenti a una congregazione religiosa. Alcuni abitano in piccoli borghi, altri nelle città, altri ancora in piccole canoniche o in sperdute località di montagna. Non ci sono numeri ufficiali, ma soltanto stime: gli eremiti e le eremite diocesani in Italia sarebbero circa cinquecento e hanno numeri in crescita, secondo il pastoralista don Giacomo Ruggeri che ne ha scritto sull’ultimo numero della rivista “Orientamenti pastorali”. Quattro anni fa il Dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica ha redatto il documento “La forma di vita eremitica nella Chiesa particolare. Ponam in deserto viam (Is 43,19)” (Libreria editrice vaticana): si tratta della prima esposizione normativa sulla vita eremitica diocesana moderna, preparata dalla Santa Sede. E nel calendario del Giubileo 2025, il 6-10 ottobre, è previsto anche il “Pellegrinaggio degli eremiti d’Italia”.
Le loro storie parlano di un Dio che si fa compagno di viaggio nei luoghi della vita quotidiana, che dissemina le nostre vite di tante piccole luci: spetta a noi saperle cogliere e custodirle.
A casa di Antonella Lumini: nel cuore pulsante di Firenze c’è un “deserto” dove rifiorire

Da oltre quattro decenni vive «un’esperienza di silenzio e solitudine», da eremita urbana nel cuore di Firenze, città dov’è nata e vive. Oggi Antonella Lumini ha 73 anni ed è in pensione, dopo aver lavorato alla Biblioteca Nazionale Centrale occupandosi di libri antichi. Giovane non credente, studentessa in filosofia, ha iniziato a viaggiare e peregrinare cercando risposte al dolore che l’attraversava: «Era la ricerca di un mistero, di qualcosa che sfuggiva e che però era fortemente pressante dentro di me, come una nostalgia che mi impediva di fermarmi», e il silenzio era proprio lo strumento di questo itinerario interiore. L’acquisto di una Bibbia avvia un’immersione nella Parola che salva e illumina. «Dopo la scoperta del silenzio non riuscivo più a leggere nient’altro. Ho trascorso anni in cui sentivo solo di dover fare il vuoto: troppo intellettualismo, troppi schemi mentali. Mi attraevano solo i volumi che sgorgavano da esperienze interiori forti: sant’Agostino, Meister Eckhart, Margherita Porete, santa Teresa d’Avila, san Giovanni della Croce, santa Maria Maddalena dei Pazzi e altri. Ho letto libri anche di un altro autore che ho avuto la grazia di conoscere: padre Giovanni Vannucci, un vero illuminato del secolo scorso. Inoltre alcuni poeti mistici, in particolare Rumi e Tagore».
Alla ricerca della sua vocazione, Antonella inizialmente ha frequentato a Firenze un monastero femminile benedettino, ma «nonostante l’attrazione forte per quella vita nel silenzio, quel ritmo non corrispondeva al mio bisogno di immersione senza orari né troppi vincoli liturgici. In altre comunità monastiche ho percepito lo stesso disagio. Quando conobbi Cerbaiolo, un eremo benedettino dell’Ottocento su una montagna davanti alla Verna, passato poi ai francescani, compresi che era il luogo dove rifugiarmi ogni volta che ne avessi avuto bisogno. Ho frequentato per molto tempo anche l’eremo di San Pietro alle Stinche, fondato da padre Vannucci». Finché, colma di contemplazione del creato, Antonella scopre un libro: “Pustinia, le comunità del deserto oggi”. Pustinia vuol dire “deserto” in lingua russa, ma «va oltre il luogo geografico: secondo la tradizione ortodossa, è il luogo in cui ci si affida completamente a Dio attraverso il silenzio. È una vocazione nella libertà dello Spirito, senza alcuna istituzionalizzazione», declinata nell’ascolto di Dio e delle persone. Quindi non allude a «un eremita isolato dal mondo, ma un custode del silenzio a disposizione dell’umanità. È proprio quello che accadeva a me: più desideravo la solitudine, più conoscevo me stessa, più diventavo sensibile all’ascolto di tanti, alle loro sofferenze». Perché il silenzio, che implica un attento discernimento sui tempi di connessione e l’uso del telefono, «non è fuga, ma passività profondamente attivata dallo Spirito».
Così nella sua casa fiorentina una stanza è diventata la sua pustinia dove prega e accoglie chi desidera di essere ascoltato. E nel corso degli anni Antonella ha dato più spazio alla testimonianza attraverso incontri, gruppi di meditazione, articoli, volumi. Nel più recente, “L’eterno nel tempo. Dall’homo sapiens all’homo spiritualis”, edito da Castelvecchi, scrive: «Serve la sapienza del cuore, percepire il senso di sproporzione di fronte all’immenso mistero della vita. Scegliere la vita è scegliere l’amore, accettare un percorso di purificazione dall’odio e dallo spirito d’inganno che lo alimenta. La scelta è dunque fra rapinare la vita, manipolarla, possederla, oppure riceverla come dono gratuito, renderla feconda, donarla».
Dalla Sorbona alla Calabria: Mirella Muià aiuta a scoprire quel Dio in fondo a ogni abisso

«Credo di non essere qui per me, ma per vivere radicalmente, rendere visibile per altri e soprattutto trasmettere la vocazione sepolta da secoli in questa terra: la vita di piena immersione nell’ascolto del Verbo della vita e dei fratelli, il monachesimo vissuto e trasmesso nei tre rami della vita eremitica, anacoretica, cenobitica. Ora è il tempo favorevole per riconoscere in questa forma di vita cristiana un respiro essenziale per la Chiesa, per tutte le Chiese». Lo scrive l’eremita e iconografa madre Mirella Muià nel suo ultimo libro, “Sulla via della pace. Il pellegrinaggio interiore”, che uscirà il 29 agosto per TS edizioni nell’anno giubilare come «invito ad attingere al tesoro della Bibbia e all’esperienza dell’eremitaggio». Perché l’autrice 78enne vive a Gerace, in provincia di Reggio Calabria, all’Eremo dell’Unità, presso la chiesa bizantina di Santa Maria di Monserrato: nel 2002 le fu affidata dal vescovo Giancarlo Bregantini, allora pastore della diocesi di Locri-Gerace, caratterizzato dalla «preghiera per la riunificazione di ciò che è diviso, disperso, lontano: l’uomo in se stesso e in relazione alla sua storia, le chiese cristiane, la famiglia umana». La connotazione ecumenica è palpabile: «Alcuni ucraini hanno visto l’iconostasi in chiesa e si sono commossi, dicendo che si sentivano a casa».
Ma quando e perché madre Mirella approda di nuovo in terra calabra, popolata nel primo millennio da monaci ed eremiti? Originaria di Siderno, emigrata a quattro anni a Genova a causa del lavoro paterno, da adolescente sente un richiamo a entrare in Certosa o al Carmelo ma diventa agnostica: «Vedevo tanti emigrati poveri che vivevano nelle baracche e chiedevo a Dio dov’era, cosa faceva, perché abbandonava queste persone in difficoltà. Ho chiuso con Lui e con la Chiesa come istituzione». Con una laurea in lingue, nel 1971 arriva alla Sorbona di Parigi per conseguire il dottorato in Letteratura tedesca e avviare la carriera di ricercatrice; nel 1975 un matrimonio presto fallito e la nascita di una figlia, che dal 2001 vive in Brasile e l’ha resa nonna.
Nel 1987 la conversione: combattendo un tumore, finiti i risparmi per le spese sanitarie e con uno sfratto, da un’amica defunta le viene regalata una Bibbia e resta «ancorata al Prologo di Giovanni, letto in parallelo al capitolo 1 di Genesi. Ero caduta in fondo a un pozzo, ma da sola non riuscivo a risalire: Dio era nel mio vuoto e io non lo sapevo, è sempre in fondo a ogni abisso umano. Due anni dopo ho deciso di tornare in Calabria per una vita di totale dedizione alla Parola e a servizio dei fratelli, ma dovevo attendere che mia figlia scegliesse la sua via, accompagnarla: si è laureata nel 2000 a Cosenza ed è partita per un villaggio in Amazzonia».
La giornata di madre Mirella comincia intorno alle 4 con due ore di preghiera, poi si prende cura di gatti e cani abbandonati, legge, scrive e registra audio «con meditazioni che mando a gruppi di ascolto». Alle 9 inizia l’accoglienza e i colloqui con «chi ha bisogno di essere ascoltato e arriva dalla Calabria ma anche da tutta Italia e dall’estero». Si tratta «soprattutto di donne, ma anche di religiosi che vengono per fare un discernimento di vita eremitica». E conclude: «Anche il nostro amore salva perché, amando, cooperiamo con l’Amore per la custodia di tutto ciò che ne è accolto. Così ritroveremo e riconosceremo vivo – e intatto – tutto quello che abbiamo amato preservandolo dalla morte, che ha le sue radici nell’indifferenza e nella dimenticanza. La memoria opera con e nell’Amore».
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