martedì 20 giugno 2017
Malgrado gli scenari cambiati “Lettera a una professoressa” resta un testo quanto mai attuale. La timidezza dei poveri e l’idea di una scuola dove ci si guarda negli occhi e si cerca di migliorare
Don Lorenzo, il sapere serve per essere condiviso
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Rileggo spesso Lettera a una professoressa e ogni volta ne esco, allo stesso tempo, con le ossa rotte e una grande energia. In quali altri luoghi della cultura novecentesca è possibile ritrovare un giudizio così aspro e tagliente sulla società con la quale abbiamo ancora a che fare? Era un libro, ricordiamolo, rivolto non tanto agli insegnanti, quanto ai genitori: «un invito a organizzarsi ». L’aveva composto il priore di Barbiana, insieme ai suoi otto ragazzi, sacerdote, educatore, profeta e grande scrittore italiano, seppure sotto mentite spoglie, per combattere la timidezza più antica: quella dei poveri. I suoi preferiti.

Che oggi si chiamano Mohamed e Ismail, Ivan e Irina. Don Lorenzo Milani li aveva prefigurati in un passo straordinario di quello stesso volume coniando per loro una definizione memorabile che, specie in questo momento storico, dovrebbe risuonare nelle nostre orecchie: «Il meglio dell’umanità». Per chi altri oggi dobbiamo infatti sognare una scuola «senza cattedra, né lavagna, né banchi», dove il più vecchio dei maestri ha sedici anni e il più piccolo dodici? Un posto do- ve ci si guarda negli occhi e si cerca insieme di capire qualcosa migliorando se stessi.

Se il tempo dell’istruzione equivale al tempo della vita, come avrebbe voluto l’antico signorino, pronto a macchiare la sua camicetta bianca pur di stare dalla parte degli ultimi, allora sarebbe assurdo mettersi nella posizione di chi inganna l’avversario ponendogli domande a trabocchetto. Anche l’idea di copiare il compito non verrebbe mai in mente a nessuno. Pierino è il bambino privilegiato che sa gli argomenti prima ancora di entrare in aula. Gianni quello svantaggiato che non ha mai letto un testo in vita sua.

A scuola prendono entrambi la sufficienza: vogliamo forse porre questi due 'sei' sullo stesso piano? Se non avessimo fatto le parti uguali fra diseguali, avremmo dovuto dare cinque a Pierino e otto a Gianni, premiando il movimento registrato dagli studenti, prima ancora del traguardo che essi hanno raggiunto. Sono trascorsi cinquant’anni dal momento in cui questa consapevolezza venne data alle stampe, non possiamo dire che tutto sia rimasto uguale a prima, al contrario, la scuola italiana ha recepito lo spirito inclusivo che promanava da quelle pagine, basti pensare soltanto alla legislazione sui 'diversamente abili'; tuttavia «l’ossessione della campanella e l’incubo del programma» sono ancora pienamente attivi, rilanciati da due nuovi fantasmi di matrice europea: la maledizione burocratica e la smania selettiva. Da una parte ci sono i bilanci delle competenze, dall’altra i test a risposta multipla. Il priore aveva affermato: «Una scuola che seleziona distrugge la cultura.

Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi la conoscenza delle cose». Una dichiarazione che oggi vale doppio perché assume dimensione planetaria. Chi è Gianni? Sempre il priore ce lo dice: «Fratello di tutta l’Africa, dell’Asia, dell’America Latina». Alla scuola Penny Wirton, dove insegniamo l’italiano agli immigrati, queste parole acquistano forza: «È solo la lingua che fa uguali». Davanti ad Abdel, così come di fronte a ogni allievo, non possiamo recitare la commedia della vecchia professoressa che, durante i compiti in classe, passava fra i banchi e, vedendo gli scolari sbagliare o in difficoltà, non diceva nulla: «Per contentare lei basta ripetere i giudizi del Sapegno con la faccia d’uno che i testi se li è letti sull’originale». Dobbiamo giocare a carte scoperte. Fare sul serio. Non addestrare a superare l’ostacolo, ma costruire imprese conoscitive. Però attenzione: quella di don Milani non era una comunità libertaria: «Un ragazzo che ha un’opinione personale su cose più grandi di lui è un imbecille. Non deve avere soddisfazione. A scuola si va per ascoltare cosa dice il maestro».

E, poche righe prima: «Io sono un ragazzo influenzato dal maestro e me ne vanto. Se ne vanta anche lui. Sennò la scuola in che consiste?». La via giusta ci chiama all’autenticità del confronto, alla qualità della relazione umana. Il cristianesimo, vissuto così, a fari spenti, eppure luminosissimi, con «un sapere che serve solo per darlo», diventa il propulsore del mondo. Non è «la scuola dei preti», inutile per gli atei, ma lo strumento per «dedicarsi al prossimo», fino a raggiungere, come ha compreso papa Francesco, il midollo spinale dell’Evangelo: «Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi».

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