Tumori al cervello e al pancreas, le speranze in due studi italiani
La conclusione della sperimentazione di fase 1 sull'uomo di un farmaco biologico e la scoperta di un nuovo bersaglio terapeutico, riaprono i giochi contro due big killer dell'oncologia

I tumori maligni di cervello e pancreas sono subdoli, perché quasi sempre asintomatici; tra i più pericolosi, perché sanno “occultarsi” e la sede di insorgenza è di quelle complesse da trattare, anche chirurgicamente; né si possono prevenire. E le cure, anche le più moderne immunoterapie, sono spesso costrette ad alzare bandiera bianca contro l’aggressività e la capacità di sviluppare recidive di questi autentici big killer dell’oncologia. Ecco perché la notizia di due studi, entrambi italiani, che svelano inediti meccanismi di azione di queste malattie e aprono la strada a terapie innovative ed efficaci, offre più di un motivo di speranza.
Già in fase avanzata è la ricerca ideata e coordinata dal neuroscienziato Angelo Vescovi, direttore scientifico dell’Irccs Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (Foggia) e docente del dipartimento di Biotecnologie e bioscienze dell’Università di Milano-Bicocca, che, contro il più comune e aggressivo cancro del cervello, il glioblastoma multiforme (capace di resistere allo sviluppo di farmaci per oltre 4 decenni e con un’aspettativa di vita di 14,5 mesi), ha sperimentato una proteina ricombinante umana, chiamata “hrBmp4”, che agisce sulle cellule staminali tumorali, bloccandone la crescita, senza tossicità a carico dell’organismo. La sperimentazione ha già superato con successo la fase 1 sull’uomo, quella che, nell’arco di 3 anni, su un piccolo gruppo di pazienti, ha testato la sicurezza e la tollerabilità, guadagnando la pubblicazione sulla rivista Molecular Cancer. Lo studio multicentrico internazionale, sostenuto con oltre 14 milioni di euro da StemGen spa, biotech italiana nata nell’Università Bicocca, e supportato anche dalle americane “The Brain Tumor Funders’ Collaborative Initiative” e “James S. McDonnel Foundation”, ha visto coinvolti l’Irccs neurologico Besta di Milano, il professor Clemens Dirven e il team dell’Erasmus University Medical Center di Rotterdam, il Brainlab A.G. di Monaco di Baviera, il Tel Aviv Medical Center, la University Clinic Hamburg-Eppendorf e l’Amsterdam University Medical Center.
Di fatto è stato inaugurato un approccio terapeutico sinora inesplorato. L’obiettivo stavolta non è stata l’eliminazione delle cellule del cancro. I ricercatori hanno preso come bersaglio solo le cellule staminali “carcinogeniche”, quelle considerate il vero motore dello sviluppo tumorale, con lo scopo di «farle diventare mature e differenziate», rendendole cioè incapaci di moltiplicarsi e di sostenere la crescita del tumore. La nuova terapia, detta appunto di “pro-differenziamento” è stata testata su 15 pazienti affetti da glioblastoma recidivante (con aspettativa di vita media di 5 mesi) e somministrata, nei pressi della massa tumorale, con una lenta infusione. Il 20% di loro, hanno fatto sapere gli scienziati, ha risposto alla terapia: in due pazienti la lesione è completamente scomparsa, e un terzo paziente, con risposta parziale, è sopravvissuto fino a 27 mesi (circa 4 volte il tempo medio di comparsa delle recidive). Ma, paradossalmente, il dato più sorprendente è arrivato proprio dai soggetti che non hanno risposto alla cura: «In questi pazienti - ha detto Vescovi, che ricopre anche la carica di presidente del Comitato nazionale di bioetica - abbiamo osservato che il tumore è tornato a crescere solo nelle aree del cervello in cui non siamo riusciti a far arrivare il farmaco, a causa dei limiti delle tecniche di infusione nel coprire con precisione la lesione cancerosa. Viceversa, i 3 pazienti che hanno risposto sono tra quelli in cui il farmaco ha raggiunto una porzione maggiore di tumore. Un’ulteriore prova del fatto che la proteina “hrBmp4”, agendo come regolatore inibitorio delle cellule staminali neoplastiche, può essere in grado di bloccarne la crescita». In definitiva, «se si considera che lo studio è stato condotto su soggetti già molto compromessi da una patologia in stadio avanzato, e che le terapie standard, a fronte di notevole tossicità e pesanti effetti collaterali, allungano solo di 5 mesi l’aspettativa di vita dopo una recidiva, i risultati ottenuti rappresentano una speranza concreta per iniziare a cambiare la storia di questo terribile male».
Dunque, un cambio di strategia con il quale, per dirla con le parole del primario neurochirurgo del Besta e ordinario alla Statale Milano, Francesco Di Meco, viene «“rieducata” quella sottopopolazione di cellule tumorali verosimilmente responsabili della nascita e della progressione del tumore. È una strategia perseguibile in maniera sicura per i pazienti e con indizi di una reale efficacia terapeutica, che indagheremo ulteriormente». Già, perché ora i ricercatori sono già concentrati sulla Fase 2 (delle 3) di sperimentazione: «Negli studi di fase 2, che partiranno non appena avremo raccolto i fondi necessari, arruoleremo 250 pazienti sia con recidiva di glioblastoma multiforme sia di nuova diagnosi - ha evidenziato Vescovi -. Potremo, inoltre, disporre di sonde molto più efficienti, che permettono di infondere più farmaco e di veicolarlo con maggiore precisione sulla massa tumorale, coprendola fino al 90% (3 volte l’attuale), per tempi fino a 10 volte più lunghi. Pertanto, ci aspettiamo dati di efficacia ancora più consistenti».
I nuovi trial, in progettazione a livello mondiale, coinvolgeranno alcuni dei più grandi centri nordamericani ed europei. Se la fase 2 dovesse anche solo riprodurre su più ampia scala i medesimi risultati, “hrBmp4” potrebbe essere utilizzato come farmaco orfano (categoria di medicinali impiegati per la cura delle malattie rare), dato che sia l’Ema (l’ente regolatore europeo del farmaco), sia l’Fda (il corrispettivo statunitense) gli hanno già riconosciuto questo status. Abbiamo grandi aspettative nei confronti di questa proteina il professor Henry Brem – ha riferito il primario di Neurochirurgia alla Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora (Usa) -. Se i risultati promettenti dimostrati finora saranno confermati negli studi di fase 2, si aprirà la strada a una terapia innovativa che potenzialmente cambierà gli esiti clinici per i pazienti affetti da gliomi maligni».
Hanno invece fatto ricorso alle tecnologie più innovative “a singola cellula e di trascrittomica spaziale” e alla bionformatica i ricercatori dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano, dell'Istituto Telethon di terapia genica (Sr-Tiget) e dell'Università Vita-Salute San Raffaele per svelare, per la prima volta, uno dei meccanismi cruciali per la crescita del tumore del pancreas, l’adenocarcinoma duttale per la precisione. Di conseguenza è stato così individuato un nuovo promettente bersaglio terapeutico per rallentare la progressione del cancro.
Lo studio, cui hanno preso parte anche le Università di Torino e Verona, l'Istituto francese per la Sanità e la ricerca medica (Inserm), il centro di ricerca Biopolis di Singapore e l'Università di Shanghai, è stato sostenuto dalla Fondazione Airc, dal Consiglio europeo delle ricerche e dal ministero della Salute, ed è appena stato pubblicato su Nature. Gli scienziati hanno scoperto che a favorire la crescita di questa forma di tumore è la speciale alleanza fra un tipo di cellule immunitarie, chiamate “macrofagi IL-1beta+”, e cellule tumorali molto aggressive, note per essere legate a infiammazioni. Bloccare questa interazione potrebbe rivelarsi strategico per contrastare l’insorgenza della malattia. «Si tratta di una sorta di un circolo vizioso autoalimentato. I macrofagi rendono le cellule tumorali più aggressive, e le cellule tumorali riprogrammano i macrofagi in grado di favorire l'infiammazione e la progressione della malattia», ha dichiarato il coordinatore della ricerca, Renato Ostuni, responsabile del laboratorio di Genomica del sistema immunitario innato all'Istituto Sr-Tiget e professore associato all'Università Vita-Salute.
«Abbiamo condotto esperimenti per studiare come interferire con questo circuito. I risultati, seppure ottenuti per ora in studi solo di laboratorio, sono incoraggianti. Questo approccio ha portato a una riduzione dell'infiammazione e a un rallentamento della crescita del tumore del pancreas», hanno osservato Nicoletta Caronni e Francesco Vittoria, tra gli autori principali dell'articolo. La ricerca è «un bel passo avanti nella comprensione dei processi biologici alla base della patologia. Tuttavia, siamo a uno stato preclinico, ancora distante dall'applicazione nei pazienti». Ma la corsa ad approntare le modalità più appropriate per agire su questo nuovo bersaglio terapeutico è già partita.
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