Sotto la collina nera di Montecchio: «Con le polveri ci stanno avvelenando»
di Marco Birolini, inviato a Montecchio (Vicenza)
Preoccupa l’impianto di rigenerazione di due ex cave nel Vicentino. Un comitato chiede alle istituzioni di verificare la qualità dell’aria e della falda. Siamo andati a vedere di persona

La collina nera la vedi dalla strada. Ogni volta che si alza il vento le polveri si levano e si spargono sui prati coltivati a foraggio e sui vigneti, negli orti, sui davanzali, nelle grondaie. Persino sullo scivolo del parco giochi, tanto che i bambini si ritrovano con piedi e vestiti sporchi. Provengono da un vicino ingombrante, un impianto di stoccaggio di scorie di fonderia capace di ricevere 775 mila tonnellate di materiale all’anno. Lo chiamano T50, sigla che sta semplicemente per “via Terraglioni 50”, cioè l’indirizzo del sito che dagli anni ’80, assieme al gemello T44, sorge tra i comuni vicentini di Montecchio Precalcino e di Villaverla, meno di 10 mila anime in due. Le due ex cave sono presenze familiari, con cui gli abitanti da sempre sono rassegnati a convivere. Nel 2019 l’area, allora gestita dalla Safond, era stata in parte sequestrata dalla Guardia di finanza, che aveva trovato tracce di idrocarburi e metalli pesanti . Alla Safond è subentrato il gruppo Ecoeridania, gigante del riciclo, che l’ha ribattezzata Silva e ha avviato il risanamento. Da allora non ci sono stati altri allarmi ambientali, la situazione dei siti è monitorata. Eppure qualcosa non torna. «Secondo quanto riferito dalla popolazione residente – scrive il consigliere regionale Renzo Masolo (Avs) in un’interrogazione presentata a inizio ottobre – sarebbe riscontrabile un’incidenza elevata di patologie oncologiche e respiratorie, tanto che quasi ogni famiglia del circondario, soprattutto in via Igna (Villaverla), via Pra’ Castello e via Terraglioni (Montecchio) avrebbe dovuto affrontare un caso di tumore negli ultimi anni».

Masolo chiede perciò che l’Arpav si muova, che analizzi la qualità dell’aria. Un appello rilanciato nei giorni scorsi dai cittadini del comitato “Tuteliamo la salute”, nato all’inizio dell’anno «non per fare allarmismo, ma per informare e sensibilizzare», spiega Mariano Caretta, psicologo in pensione e fondatore del gruppo. «Chiediamo che sia installata una centralina, ma siamo anche disposti a comprarcela: abbiamo già iniziato una colletta. Vorremmo però anche capire qual è lo stato delle acque, visto che qui scorrono le rogge cui si attinge per l’irrigazione. Senza contare che il paese vicino di Dueville non ha un acquedotto, perché tutti hanno un pozzo privato». Il comitato e Masolo segnalano il rischio che, in caso di piogge, dalle discariche si verifichino sversamenti in falda. Uno scenario inquietante, ma certamente non nuovo. «Sono problemi che durano da 40 anni…», sospira Caretta, che fa mea culpa: «Siamo sempre stati abituati così, nelle cave ci andavamo a giocare da bambini, siamo cresciuti senza farci troppe domande». Finché è caduta la classica goccia che fa traboccare il vaso. La Silva ha chiesto alla Provincia di estendere l’attività: il progetto prevede di trattare a Montecchio anche i rifiuti sanitari, considerati pericolosi per legge.
Il Comitato in trincea
La gente a questo punto ha detto basta, anche perché negli ultimi giorni è arrivata un’altra mazzata: in quattro ex cave del territorio sono state scaricate terre di risulta degli scavi della Pedemontana, risultati contaminati dai temibili Pfas, che proprio nel vicentino hanno scritto pagine nere, avvelenando le falde di un territorio dove vivono più di 300mila persone. La procura ha aperto un’inchiesta, ci sono 12 indagati. La preoccupazione sale, l’esasperazione anche. Il Comitato ha scritto alla Provincia, per chiedere di fermare il progetto, e alla Regione, chiedendo di sospendere il procedimento di valutazione di impatto ambientale: «Nei nostri paesi i cittadini smettono di coltivare gli orti perché colgono insalate coperte di una patina nera, non accolgono più la frutta per fare la marmellata, né i grappoli per fare il vino. Il debito ambientale che, non volendo, abbiamo contratto nei confronti dei nostri figli e nipoti ci pare già abbastanza pesante». Ma il Comitato è andato oltre, segnalando la situazione anche al Parlamento europeo, cui è stata inviata una petizione per chiedere «la tutela dell’acquifero più grande dell’Europa occidentale».

Tra Asiago e il Bacchiglione
Sotto Montecchio scorre infatti l’acqua proveniente dall’altopiano di Asiago, che si erge alle sue spalle. Poco più a sud, invece, emergono dal terreno le risorgive del fiume Bacchiglione. Claudia Marcolungo, docente di diritto ambientale dell’Università degli Studi di Padova, ha allertato così la Provincia: «La stessa conformazione geologica dell’area e la rilevanza degli acquiferi sotterranei potenzialmente interessati reclama estrema cautela nel limitare ogni ulteriore pressione rispetto l’esistente, data anche la situazione contingente di deterioramento e compromissione delle falde acquifere che caratterizza la Regione Veneto in generale, e la zona vicentino-padovana in particolare». Un ambiente delicatissimo, permeabile, da cui la ghiaia è stata estratta a volontà per realizzare la A31 Valdastico. Visto che erano rimasti i crateri – da cui spesso affiorava la falda – negli scorsi decenni si è pensato di usarli come discariche, anche e soprattutto con gli scarti delle acciaierie, pilastro dell’industria veneta. Uno scempio, che pesa come una ingombrante eredità anche sulla stessa Silva. L’azienda ha stanziato 9,6 milioni di euro per risanare l’area e mettere in sicurezza le sabbie di fonderia, cioè – come riporta la relazione tecnica del Comune di Montecchio - «isolare in modo definitivo le fonti inquinanti rispetto alle matrici ambientali circostanti e a garantire un elevato e definitivo livello di sicurezza per le persone e per l'ambiente». Contaminazioni sono state infatti rilevate «maggiormente in alcuni punti con andamenti discontinui sull’insieme della massa di materiale». La relazione sottolinea che «i parametri più preoccupanti sono stati rintracciati in un numero ridotto di campioni». Ma si tratta comunque di sostanze molto nocive: fluoruri e soprattutto Cromo VI, considerato cancerogeno. In un campione di terreno esaminato dall’Arpav il 10 giugno 2019, ad esempio, furono trovati 3600 milligrammi di cromo totale per chilo, a fronte di un limite di legge fissato in 800 per le aree industriali (per il Cromo VI il limite è di appena 15, ma le analisi Arpa non ne specificano la quantità trovata).
Il timore riguarda appunto le acque sotterranee, come denunciato dal comitato. «Il rischio maggiore che pare evidenziarsi ora è la possibile contaminazione della falda che, in periodi di morbida (quando piove molto, ndr), intrude nel livello di R2 della zona T44, che è la più contaminata». Le analisi «non destano un particolare allarme relativamente a questo fenomeno», tuttavia «dovranno essere inderogabilmente mantenuti i controlli analitici sull’acquifero». Pare insomma che si possa stare tranquilli, almeno per il momento.
Il timore riguarda appunto le acque sotterranee, come denunciato dal comitato. «Il rischio maggiore che pare evidenziarsi ora è la possibile contaminazione della falda che, in periodi di morbida (quando piove molto, ndr), intrude nel livello di R2 della zona T44, che è la più contaminata». Le analisi «non destano un particolare allarme relativamente a questo fenomeno», tuttavia «dovranno essere inderogabilmente mantenuti i controlli analitici sull’acquifero». Pare insomma che si possa stare tranquilli, almeno per il momento.
La posizione dell'azienda
Anche dalla Silva arrivano rassicurazioni: «In questi mesi è in corso un processo pubblico e trasparente relativo alla realizzazione di impianti tecnologici, che prevede verifiche e controlli rigorosi da parte di Arpa, Asl, Provincia, Regione e Comuni. L’intero iter ha garantito e continua a garantire anche il confronto e il coinvolgimento delle comunità locali». «Ad oggi – continua la Silva -, tutte le analisi effettuate non evidenziano alcuna criticità ambientale. Il progetto di Silva rappresenta una concreta opportunità di riqualificazione dell’ex Safond Martini, portando benefici economici e sociali. Si inserisce in una logica di economia circolare, con impianti progettati per garantire la massima sicurezza e tutela della salute dei lavoratori, dei cittadini e dell’ambiente». La collina nera insomma sparirà. Sempre che arrivi l’ok per avviare il trattamento dei rifiuti sanitari pericolosi.
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