Perché l’Italia non può tradire i principi della Corte penale internazionale
L’articolo 90 dello Statuto di Roma è chiaro: nel caso di una richiesta concorrente di uno Stato, vige sempre l’obbligo di consultazione della Corte

Sono destinate ad inasprirsi le polemiche sulla mancata esecuzione – avvenuta nel gennaio scorso – del mandato d’arresto della Corte penale internazionale emesso nei confronti del comandante libico Osama Almasri Najim. Nuove ombre ora sono sollevate sulle procedure adottate dall’Italia, nei cui confronti i giudici dell’Aja hanno già in corso un procedimento per accertare se deferire all’Assemblea degli Stati-parte l’Italia per inosservanza all’ obbligo generale di cooperazione (articolo 86 dello Statuto di Roma). La questione giuridica che qui interessa è l’elemento di novità emerso nel corso dell’inchiesta della Corte dell’Aja: le autorità italiane non avrebbero dato corso al mandato della Corte perché nel frattempo era pervenuta una richiesta di estradizione dalla Libia, in ciò richiamando il c.d. «principio di complementarietà» alla base della giurisdizione della Corte penale dell’Aja.
La norma di riferimento è l’articolo 17, “Questioni relative alla procedibilità”, laddove si configura la possibilità dell’intervento giurisdizionale della Corte solo qualora gli Stati non vogliano o non possano giudicare i colpevoli. In particolare, occorre che vengano a determinarsi una delle seguenti condizioni:
- l’unwillingness, il «difetto di volontà» dello Stato, desumibile da un ritardo ingiustificato, da un processo condotto in modo non indipendente e non imparziale, o in modo incompatibile con il fine di assicurare il reo alla giustizia;
- l’unwillingness, il «difetto di volontà» dello Stato, desumibile da un ritardo ingiustificato, da un processo condotto in modo non indipendente e non imparziale, o in modo incompatibile con il fine di assicurare il reo alla giustizia;
- l’inability, l’«incapacità dello Stato», a causa di un totale o sostanziale collasso istituzionale, con specifico riferimento al sistema giudiziario interno.Il principio è stato oggetto di discussioni nei lavori preparatori della Conferenza di Roma che avrebbe approvato lo Statuto della Corte il 17 luglio 1998.
Per i più critici si trattava di un passo indietro rispetto alla giurisdizione “prioritaria” del Tribunale Internazionale della ex Jugoslavia, un irreparabile «atto di deferenza alla sovranità degli Stati» (Mori, Patruno, Ronzitti) che avrebbe avallato abusi e ostruzionismi procedurali. Le tesi non hanno trovato ampi consensi. Il compianto Antonio Cassese, ad esempio, evidenziava un’esigenza di realismo giuridico: la giurisdizione delle istituzioni nazionali rappresenta la migliore per giudicare.
Inoltre le giurisdizioni nazionali, direttamente sul posto, hanno più concrete possibilità di acquisire gli elementi di prova e un panorama più ampio di fattispecie ascrivibili alla propria competenza, con la conseguenza che ad esse non potranno sfuggire anche quelle condotte sporadiche ed isolate, ma pur sempre criminali (un infanticidio, uno stupro, commessi singolarmente, non nel quadro di violenze sistematiche) che non rientrano nella giurisdizione internazionale.
Inoltre, i supposti limiti della Corte sono stati analizzati anche in una prospettiva opposta, quella del giudice nazionale che invece potrebbe lamentare di vedersi «sottratte le carte di mano» per decisione della Corte. Ma persino nel regime di occupatio bellica - definito dalle Convenzione dell’Aja e di Ginevra - non è prevista una totale sostituzione degli organismi giudiziari del Paese occupato.
Si può quindi confermare che il principio di universalità della giurisdizione sui crimini internazionali non è affatto sconfessato, perché è sempre «internazionalmente imposta» (Ronzitti). Puntuale è l’osservazione di Ida Caracciolo: «Anche se il momento interno di repressione dei crimini internazionali rimane preminente, quello internazionalistico, attraverso la Corte penale internazionale, svolge una funzione essenzialmente di garanzia della serietà e dell’effettività dell’esercizio della funzione punitiva statale, sia indirettamente, poiché costituisce un incentivo per gli Stati ad adempiere all’obbligo di reprimere i crimina iuris gentium, sia direttamente poiché si può sostituire ai loro sistemi giurisdizionali nel caso di mancato adempimento di questo obbligo».
Ciò posto nelle linee generali, anche quanto accaduto con l’ultimo respingimento della missione italo-europea in Libia conferma il problema per l’Italia di dimostrare che nel caos delle istituzioni libiche non si configurassero proprio le condizioni dell’ unwillingness e dell’inability, il «difetto di volontà» e l’«incapacità» dello Stato. Per diversi internazionalisti (Justice.net) il quadro giuridico libico non è rassicurante: «Non c'è una chiara incorporazione dei crimini di guerra, dei crimini contro l'umanità o della responsabilità di comando nella legge nazionale». In ogni caso l’articolo 90 dello Statuto di Roma è chiaro: nel caso di una richiesta concorrente di uno Stato, vige sempre l’obbligo di consultazione della Corte, la quale è il solo organismo competente a decidere sulla estradizione. Per l’Italia rimane l’ impegno morale a non tradire i principi dello Statuto della Corte penale internazionale, noto nel mondo come lo Statuto di Roma: un momento fondativo di civiltà giuridica che leader responsabili farebbero bene a sostenere in questo momento assai buio per l’umanità.
Membro della International Law Association
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