venerdì 20 aprile 2018
Un anno fa la chiusura dell’ultimo Ospedale psichiatrico giudiziario. Ecco cosa è cambiato, dalla voce dei protagonisti
Viaggio nelle Rems, dove la sfida tra cura e follia resta irrisolta
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Il confine, tra la realtà e la Rems, è un muro di due metri a sfumature di verde, sotto altri due di rete metallica. Con la pioggia battente quasi non si nota. Sulla carta, nel migliore dei mondi possibili, non dovrebbe esistere. Niente prigionieri, o reietti, tra chi ha compiuto un reato ma è incapace di intendere e di volere: lo hanno chiesto le associazioni, lo hanno consigliato gli psichiatri, lo ha deciso lo Stato. Era il 2015, sulle ceneri degli ex Opg («un autentico orrore – diceva Giorgio Napolitano – indegno di un Paese appena civile») il Parlamento decideva per legge la nascita delle Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza, strutture sanitarie e non più detentive, gestite dalla singole Regioni. Come quella di San Maurizio Canavese, gestita dai Fatebenfratelli alle porte di Torino, dove accanto al muro ora si apre il pesante cancello e poi la porta di sicurezza.

Viene Luca, incontro. «Salve, io devo mettere l’ossigeno adesso. Ero a Castiglione prima, nell’Opg. Ero a Montelupo, e anche ad Aversa. E poi a Napoli, lì ci trattavano come le bestie. Qui, invece, ci danno del “lei”». È un pezzo di storia d’Italia, Luca, coi capelli lunghi d’argento e le ciabatte di gomma usurate. Alla Rems alle porte di Torino lo chiamano “il poeta”: sulla sua vita trascorsa rimbalzando tra 4 dei 6 ex Opg d’Italia, chiusi l’anno scorso per sempre, scrive versi e canzoni. «Sono felice adesso. Hai una sigaretta?». Nella struttura gestita dai Fatebenefratelli, con lui, ci sono altri 19 ospiti: 17 uomini e 2 donne. Assassini, aggressori, più spesso delinquenti di piccolo calibro o ladruncoli. Tutti accomunati dalla “follia”. Anche questa, nel migliore dei mondi possibili, “diagnosticabile”, “gestibile”, “curabile”. «Fosse sempre così», sospira il direttore della Rems, lo psichiatra Alessandro Jaretti Sodano. E sorride a Laura, 24 anni e 130 chili di simpatia, che una sera d’estate s’è scagliata all’improvviso contro il caposala e l’ha preso a calci e pugni senza un perché, spezzandogli di netto un braccio. «Fai la brava, mi raccomando»: the big doctor, come lo chiamano tutti, col suo metro e novanta di altezza si muove come un padre tra le stanze arancione acceso. Giura di non aver paura, e con lui le due psicologhe e l’educatrice che lo accompagnano: «Però cosa faccio se Laura si arrabbia di nuovo? Cosa possiamo fare noi, qui?».

La sicurezza è un nervo scoperto e un nodo irrisolto. Anche se Laura promette di non voler fare più male a nessuno, e qualche volta da sola si rintana nella “stanza crisi”, l’unica dove sono rimasti due laccioli attaccati a una branda. «Forse non dovrebbe nemmeno essere qui, Laura» aggiunge Sodano. E racconta la sua storia di ritardo mentale, di una famiglia spezzata, dell’odio verso la madre: «La verità è che una persona come Laura il sistema non sa dove metterla ed eccola finire nel luogo più lontano, più estremo. Il non-luogo in cui ci troviamo. E in cui quel muro, lo capite, serve».

In questo primo anno di attività alla Rems di San Maurizio hanno visto di tutto: «Sono arrivate persone senza terapie, senza storia, senza niente». Come Fabio, che abbassa gli occhi sul tavolo da disegno: ha colorato l’alba, azzurra e rosa. In Rems deve stare ancora due anni, per aver violato una misura cautelare: è scappato per andare a trovare sua mamma, tutto quello che ha un senso nel suo mondo confuso. «C’è voluta una settimana, perché mandassero i suoi vestiti». Il sistema di assegnazione alle Rems deve ancora oliarsi: si tratta di strutture sanitarie la cui gestione risponde alle autorità regionali «e ciò significa che dovrebbero arrivarci solo persone del Piemonte, nel nostro caso, ma nel mio ufficio ogni settimana si accumulano richieste dalla Lombardia, dal Lazio, perfino dalla Sicilia» continua Sodano.

Poi c’è la complicata collaborazione coi servizi di salute mentale sul territorio e coi magistrati di sorveglianza. I primi stritolati dai tempi e dai modi della burocrazia, i secondi dalla paura di “sbagliare”: «È evidente che concedere troppo, a una persona giudicata pericolosa a livello sociale, comporta rischi altissimi. Il risultato è che in alcuni casi si finisce col concedere nulla» spiega ancora Sodano. Dal magistrato dipende tutto: la licenza per uscire a svolgere un’attività, collaborare a un mercatino in parrocchia, le telefonate. «Eppure tutte queste cose servono, a ognuno a suo modo, perché il nostro obiettivo qui – spiega la psicologa Vanda Braida, una vita dedicata ai malati mentali – è cercare di ricostruire queste persone, innanzitutto facendole sentire persone. E poi calibrando percorsi di reinserimento sociale, oltre che di cura». Così in Rems fioriscono l’orto, l’arte del decoupage e del mosaico, persino il lavoro, con un piccolo laboratorio di assemblaggio di kit d’igiene personale per gli alberghi vicini.

Il futuro, e la sfida, è là fuori oltre il muro. Il più delle volte nell’Unità forense attaccata alla Rems. O, ancora, nelle comunità e nei gruppi-appartamento che il “carisma” dei Fatebenefratelli, in questo caso, ha aperto sul territorio nella convinzione che «l’altro sia Dio», sempre e comunque, come ripete il priore fra Gennaro Simarò. «È una fortuna che tocca a pochi, però» continua Braida. Dal limbo della Rems non c’è una via d’uscita tracciata, e il rischio è che si torni all’inferno.

Le associazioni: «Ma le strutture vanno messe in rete»

Doveva rimanere attivo un organismo istituzionale di monitoraggio sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari: a occuparsi del cambiamento e del passaggio alle Rems avrebbero dovuto pensare ministero della Giustizia e della Salute. Un processo riuscito soltanto a metà, se è vero che le 30 strutture sparse da Nord a Sud procedono in ordine sparso, senza regole codificate e precise, e soprattutto senza un confronto sulle buone pratiche che soltanto una “regia nazionale” potrebbe valorizzare e mettere a sistema.

Il risultato è che oggi, a un anno e passa dalla chiusura dell’ultimo opg (quello di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia) a occuparsi delle Rems è rimasto soltanto il Comitato StopOpg, il cartello di associazioni che era nato con l’obiettivo di vigilare sull’applicazione della legge del 2015. «Abbiamo deciso di visitare una a una tutte le Rems – spiega il portavoce Stefano Cecconi – e il nostro viaggio è già arrivato a metà strada: siamo stati a Capoterra in Sardegna, a Palombara Sabina e Subiaco nel Lazio, a Casale di Mezzani e Bologna in Emilia Romagna. E poi, ancora, in Campania, Abruzzo, Trentino, Veneto, Friuli, Sicilia» (nelle prossime settimane visiteranno anche la Rems di San Maurizio Canavese). Il Comitato raccoglie testimonianze e osservazioni in report ufficiali, che vengono pubblicati online con video e foto: «Le realtà che incontriamo sono molto diverse, ma in larga parte positive – racconta Cecconi –. In alcune strutture prevale ancora l’aspetto fortemente detentivo e custodiale, in altre invece quello sanitario e per così dire “comunitario”, con apertura e collaborazione col territorio circostante». Ciò che avrebbe dovuto caratterizzare le Rems, nei progetti della riforma. E che tuttavia trova ancora resistenze, a livello locale.

Due i riscontri positivi. Innanzitutto la permanenza temporanea delle persone nelle Rems (la legge prevede che la durata di una misura di sicurezza in Rems non possa essere superiore al massimo della pena prevista per il reato): «Tocchiamo con mano – spiega Cecconi – che nelle strutture c’è un effettivo ricambio e che sta lentamente scemando il fenomeno degli ospiti “parcheggiati”». Quelli che in passato rischiavano di restare negli opg anche a vita insomma, alimentando il fenomeno degli “ergastoli bianchi”. «E poi notiamo l’impegno forte da parte degli operatori e dei territori a fare rete, a creare protocolli d’intesa e progetti condivisi». Il nodo da sciogliere resta ancora, invece, il ruolo dei magistrati. L’ingresso in Rems dovrebbe essere una misura di carattere residuale: prima di disporla, cioè, sarebbe necessario prendere in considerazione tutte le possibilità non detentive «e questa è una sfida che ancora pochi giudici sanno davvero cogliere». Altro problema, la sistemazione nelle Rems di un numero sempre maggiore di persone con misure di sicurezza provvisorie, per le quali è difficile predisporre un progetto terapeutico continuativo.

Dal viaggio di StopOpg nelle Rems il prossimo 11 maggio nascerà un Osservatorio nazionale sulle Rems, con referenti in ciascuna regione. In attesa che si muovano anche i ministeri competenti.

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