martedì 8 giugno 2021
Libertà di espressione minacciata, identità di genere come base inconsistente e ideologica di una legge penale, dibattito silenziato: le tesi di tre voci libere davanti alla Commissione Giustizia.
La manifestazione di Torino a sostegno della legge Zan il 5 giugno

La manifestazione di Torino a sostegno della legge Zan il 5 giugno

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Le audizioni in corso sulla "legge Zan" alla Commissione Giustizia di Palazzo Madama mettono spesso i senatori davanti a realtà alquanto scomode. Come quando, martedì 8 giugno, hanno ascoltato la dura requisitoria di Marina Terragni contro vari aspetti critici del progetto. Al centro delle sue documentate critiche il contestatissimo concetto di "identità di genere", architrave della legge ma avversato da femministe, lesbiche ed esponenti del progressismo italiano. A supporto della sua critica, la giornalista e docente universitaria ha ricordato che «la battaglia per l’autodeterminazione di genere o self-id in corso in tutto il mondo ma sta subendo importanti battute d’arresto. È stata stoppata in Spagna, in Germania, in Giappone, nel Regno Unito. Negli Stati Uniti l’Equality Act di Joe Biden difficilmente avrà la maggioranza al Congresso. Ormai è chiaro il fatto che il self-id ha un forte impatto negativo sulla società e in particolare sulla vita di donne e bambine-i».

Cosa significa "autocertificazione di genere"? vuol dire che «uomini con il loro corpo maschile intatto ma che si percepiscono donne possono accedere agli spazi femminili. Non solo bagni, spogliatoi, camerini, ospedali, ma anche quote lavorative e politiche e perfino le statistiche. Stiamo per esempio assistendo a una crescita esponenziale statistica del numero di donne-stupratori, ovvero maschi criminali che si definiscono donne. I fenomeni più clamorosi sono gli sport femminili invasi da corpi maschili, con incredibile omertà da parte del giornalismo sportivo. La bomba esploderà alle prossime Olimpiadi. In Italia 24 atlete si stanno organizzando per un’azione legale e hanno scritto alla ministra Bonetti». Quella che viene preentata come una teoria all’avanguardia, tanto da farne la pietra angolare della legge contro l’omofobia, sta invece incontrando in tutto l’Occidente crescenti resistenze: «Siamo come quei Paesi del terzo mondo dove si inviano prodotti scaduti – ha aggiunto Marina Terragni –. Ci accingiamo a importare un prodotto, l’autocertificazione di genere, già scaduto in molti posti». Dunque «avendo visto i danni prodotti altrove dall’autocertificazione di genere possiamo fermarci prima». Ma il clima attorno alle audizioni non è dei più incoraggianti, come denuncia davanti ai senatori la stessa Terragni: «Ho affermato che con la legge Zan parlare contro le coppie di padri sarà ritenuto crimine d’odio» anche se «l’utero in affitto sarebbe un reato» ma dal fronte parlamentare dei sostenitori della legge c’è chi «ha scritto che purtroppo in queste audizioni sarebbero state sentite anche femministe transescludenti», ovvero lei. Ebbene, «ai sensi della legge Zan si potrebbe leggere come istigazione all’odio».

Non meno esplicito il tono dell’audizione di Alberto Contri, esperto di comunicazione, a lungo a capo di Pubblicità Progresso: «Mi pare che l’urgenza dell’approvazione di questa legge abbia ben altri motivi: l’introduzione di un concetto come l’identità di genere, che nei vari articoli viene dato per scientificamente assodato, quando è una mera invenzione». Avversare la legge Zan così com’è non vuol dire essere contro forme di tutela di persone che si ritengono discriminate per qualunque motivo: «È del tutto ovvio – ha detto Contri – che qualunque essere umano debba essere rispettato allo stesso modo e avere le stesse opportunità. Ma con l’obbiettivo di combattere le discriminazioni, per una sorta di eterogenesi dei fini, i sostenitori della causa Lgbt si sono impadroniti della società e dei suoi linguaggi. Ha scritto l’Economist, settimanale notoriamente progressista: “Una orwelliana polizia del pensiero censura le opinioni politiche e sociali, la lingua. Qualsiasi opinione contraria all’ortodossia libertaria si scontra con una forma di tolleranza zero che etichetta chi la esprime come razzista, omofobo o transfobico. I gruppi di minoranza stanno imponendo i loro valori e i loro stili di vita a tutti gli altri”».

A scanso di equivoci, Contri precisa: «Sia chiaro che promuovere l’inclusione, in sé, è un ottimo proposito. Ma non lo è più quando sconfina nell’educazione al concetto dell’identità di genere, con l’organizzazione di corsi per i figli dei dipendenti, o con il sempre più diffuso inserimento di coppie omosessuali nella pubblicità. Perché questa non è la difesa di una minoranza, ma la promozione di uno stile di vita». L’allusione aziendale è presto spiegata: «Sono 75 le imprese che sostengono "Parksdiversity", l’associazione gestita dall’onorevole Scalfarotto, che promuove l’Inclusione (magica parola sempre più abusata) valorizzando i “diversi” e le tematiche Lgbt. Tutte aziende convinte che promuovendo la causa Lgbt si vende di più». Sorge seriamente il dubbio che, vigente la legge Zan, affermazioni simili costerebbero penalmente care. Contri non si ferma e parla di «vero e proprio obbrobrio antropologico, introdotto all’articolo 1 e reiterato negli altri, dato per assodato quando non lo è affatto». E citando una recente conferenza milanese del presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, invitato dal Centro culturale di Milano dopo la recente intervista ad Avvenire, Contri ricorda che nella legge «“ci sono concetti troppo indefiniti, inammissibili in una legge penale, errori giuridici da matita rossa e blu, e che sono un insulto alla Costituzione”».

Voce rispettata del femminismo, Francesca Izzo è stata invitata dal Senato come rappresentante dell’associazione di donne «Se non ra quando-Libere» che sulla legge Zan da mesi cerca di far sentire le sue riserve: «Fin dagli inizi – ha detto – si è però rivelato molto difficile aprire una discussione che coinvolgesse la più ampia opinione pubblica, sono mancate le sedi per un confronto serio, pacato, che consentisse di mettere in luce le implicazioni di alcune formule presenti nel testo. Una nostra lettera aperta ai firmatari e sostenitori del ddl, al momento dell’avvio del dibattito alla Camera, cadde nel vuoto, come pure altri successivi tentativi. Poiché si tratta di questioni all’apparenza molto semplici ma in realtà estremamente complesse e direi “di frontiera”, sarebbe stato più che opportuno, per raggiungere l’obiettivo che il ddl si propone, seguire una prassi che ha nel passato dato buoni frutti : in campi eticamente e culturalmente sensibili, è bene cercare il più largo consenso senza trasformare queste istanze di civilizzazione della vita associata e di rispetto delle persone, in una contrapposizione di schieramento politico, schiacciando, come purtroppo è accaduto, ogni voce critica su una secca alternativa sì o no, prendere o lasciare».

E se l’associazione sostiene «una legge che contrasti più efficacemente gli atti di odio, violenza e discriminazioni nei confronti delle persone omosessuali e transessuali e aiuti a superare radicati sentimenti omotransfobici che ancora segnano la mentalità di settori non piccoli della popolazione italiana», tuttavia «a questo nucleo distintivo del ddl sono stati aggiunti, in maniera impropria altri temi e soggetti che sarebbe invece opportuno non inserire per evitare confusioni e imprecisioni. Si è poi compiuta scelta di adottare la dicitura “identità di genere”, invece che “identità transessuale”, per riferirsi alle persone transessuali. Questa formulazione è il cuore del ddl Zan e da essa in qualche modo discendono altre criticità rilevate da più parti riguardo all’art.4 (libertà di espressione ) e art. 7(la scuola)». Nelle parole di Francesca Izzo è evidente la distanza siderale di questi temi rispetto all’incedere per slogan cui il supporto alla legge "a ogni costo" e "così com’è" ci ha abituati, e che si ripete anche in queste ore: «In fondo – spiega la filosofa ed ex parlamemtare Pd – è un disegno di legge contro l’omofobia e la transfobia, quindi riguarda le persone omosessuali e transessuali, allora perché non indicarlo esplicitamente anche per queste ultime? Quella espressione, in effetti, introduce e legittimare nel nostro ordinamento costituzionale e legislativo un profilo non previsto, ovvero l’identità sessuale sulla base dell’autopercezione e della sola manifestazione della volontà soggettiva. L’identità transessuale e l’identità di genere sono due formulazioni che significano cose diverse. La prima indica la condizione, a volta dolorosa e drammatica, delle persone trans, la seconda veicola una visione o un progetto politico-culturale: quello di negare il fatto che l’umanità sia composta di due sessi affermando invece che l’identità si fonda solo sul “genere” (meglio sui generi tanti e vari), un puro costrutto storico-sociale». Più chiaro di così.


Vale la pena seguire il ragionamento dell’intellettuale, con le sue parole: l’identità di genere, ha detto ai senatori, è «una definizione che intende rendere autonomo il genere dai sessi. Il genere – e con questo termine si indicano ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini – viene ad assumere una propria, indipendente consistenza, sino a configurare un’identità. È bene precisare che quando affermo che i sessi della specie umana sono due non metto minimamente in discussione il fatto che singoli individui non si ritrovino a corrispondere al sesso con cui sono venuti al mondo o che non accettino l’orientamento sessuale che a quel sesso di norma si associa, ovvero siano trans o omosessuali. Intendo solo dire che sempre alla sessuazione umana si fa riferimento. Invece con “identità di genere” si vuole emancipare il genere dal sesso, affermare che il sesso è una pura esperienza interiore, personale che prescinde dal vincolo della corporeità (e la corporeità umana è fenomeno inestricabilmente psicofisico e relazionale non riducibile alla sola biologia, benché la biologia non sia il male assoluto, come si tende troppo spesso a sostenere, tutt’altro basta che non la si usi in senso deterministico), anzi, questa viene condizionata, performata dalla libera autonoma percezione, sentimento di sé. Ma come si esprime, come si comunica questa intima, puramente soggettiva percezione che tra l’altro, non potendo essere una mistica intuizione di sé, è il risultato di un confronto, di una valutazione tra il sé e un qualche criterio esterno, sociale? Attraverso i segni del genere, in questo caso abbigliamento, eloquio, linguaggi del corpo. Il “genere” che in origine indicava ruoli e funzioni sociali condizionanti, specifiche attività strettamente correlate al sesso, qui si riduce alle sole manifestazioni esteriori, ovvero alla parata degli stereotipi , proprio quelli che le donne hanno combattuto e continuano a combattere. Bel paradosso!».

In realtà «è stato il movimento di liberazione delle donne a mettere in campo il concetto di “genere” per criticare e cambiare l’ordine tradizionale che si spacciava per naturale e quindi immutabile perché sosteneva che gli uomini e le donne hanno, per natura, una funzione sociale definita dal loro sesso. Il termine “genere” è stato usato per indicare quella serie di comportamenti, ruoli, stereotipi, che nel corso dei secoli, se non millenni, sono stati attribuiti al sesso femminile e al sesso maschile». Ed è per «liberare le donne da questa coatta, vincolante identificazione con tali ruoli e funzioni» che «si è iniziato a distinguere il sesso femminile dal genere femminile. Quindi “l’identità di genere” in origine, significa tutto ciò che la cultura, la storia ha costruito addosso alle donne (e anche agli uomini) elaborando precise norme di vita (che vanno dalla scelta dei colori alle attività, dai giochi alle scuole ai comportamenti all’abbigliamento). Oggi tali norme vengono definite stereotipi di genere e sono contrastati per consentire alle donne di essere libere di scegliere la vita che desiderano». Tuttavia «questo termine “genere”, soprattutto nel mondo anglosassone, ha cominciato quasi insensibilmente a slittare di senso. Nello sforzo di liberarsi da una storia di oppressione e di dipendenza si è arrivate, da parte di alcune correnti femministe, a voler cancellare la “donna”, identificata totalmente con quella storia, come se il sesso femminile fosse la parte “negativa” dell’umanità. Così in area anglofona, il termine “gender” ha progressivamente occupato sempre più spazio fin quasi a sovrapporsi al sesso e infine a soppiantarlo. Questo è avvenuto in concomitanza con l’imporsi, nel dibattito culturale e accademico, di una linea di pensiero che ha visto protagonista indiscussa la filosofa americana Judith Butler. Utilizzando una strumentazione teorica molto sofisticata, Butler ha spinto il potere trasformativo della storia e della cultura, cioè dei codici linguistici, sociali, culturali, sino al punto di rendere il sesso biologico, potremmo dire la corporeità sessuata, effetto di un ordine discorsivo, di una pratica linguistica performativa. La teoria butleriana, pur nata all’interno dell’universo femminista, era volta a dare piena dignità e piena uguaglianza di diritti alle minoranze gay, transgender, queer». Ma «in questa visione il sesso, la dualità sessuale, il binarismo e l’eterosessualità non solo scompaiono ma sono circondati da un alone di negatività perché rappresenterebbero un ordine, l’ordine binario e eterosessuale, che relega chi non vi rientra a uno stato di permanente marginalità. La portata dell’operazione culturale è evidente: se vogliamo l’uguaglianza, se vogliamo rispettare tutti e dare a tutti la stessa dignità bisogna eliminare alla radice quella norma che rende anomali e marginali alcuni: i gay, i transessuali, i transgender, gli intersex,ecc. Il gender è la via: se non diamo alcuna consistenza o senso alla differenza sessuale, sfuma anche la differenza tra una donna di sesso femminile o uomo di sesso maschile e una/un transgender, vale a dire un uomo non operato e non in transizione che si dichiara donna, o una donna che si dichiara uomo. Sono equivalenti, sono possibili varianti di identità che non hanno più alcun fondamento, alcun referente corporeo sessuato». Difficile spiegare meglio la "teoria (o ideologia) del gender".

«Il "discorso" del gender – prosegue Francesca Izzo a Senato – mira a eliminare i presupposti antropologici che stanno alla base delle varie forme storiche di identità sessuali, sostituendoli con l’indefinita pluralità delle singole esistenze. Nasce da qui lo sconcertante allungarsi delle sigle Lgbtqi... L’uso del termine “identità di genere” nel testo del ddl è carico di questa densa storia teorico-politica e presenta perciò un deciso risvolto programmatico, di progetto politico-culturale». Conclusione: «Finché si resta nel campo del libero confronto delle opinioni, del dibattito scientifico e accademico su come può e deve evolvere il cammino della libertà nel prossimo futuro, ogni teoria, ogni visione deve essere esposta e discussa senza limitazioni di sorta, anzi investendo più ampiamente l’opinione pubblica che, come stiamo verificando, è in grande misura ignara di queste tematiche e delle loro implicazioni. Ciò che invece non risulta accettabile è l’inserimento in una legge di rango penale di una formula che è il condensato di teorie controverse, discusse e discutibili, teorie che per questa via ottengono uno statuto di indiscussa “verità”».

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