giovedì 19 maggio 2022
Paolo Bonfanti, primario di Malattie infettive al San Gerardo di Monza: «È una condizione diffusa, ha una gravità variabile e non ci sono terapie ad hoc. Servono centri specializzati e linee guida»
«Si ammala anche la mente». È la pandemia del long Covid
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È subdola e semisconosciuta. Dalla diagnosi complessa, e quasi del tutto priva di terapie: l’Oms l’ha battezzata “Long Covid condition” questa pandemia post pandemia, questo Covid che non si esaurisce, e che interessa soprattutto i pazienti (uno su due, secondo un vasto studio cinese) che hanno affrontato la malattia in ospedale. Ma anche buona parte di chi, guarito, ha superato l’infezione senza ricovero. In tutto il mondo si cerca di dare uniformità alle svariate caratteristiche della sindrome, e si studiano linee guida per fare ordine sui possibili trattamenti. È tuttavia già possibile stabilire alcuni punti fermi. «Di sicuro intendiamo interessati da questa condizione coloro che hanno sintomi a più di tre mesi dalla dimissione ospedaliera, o dalla guarigione», dice l’infettivologo Paolo Bonfanti, docente di Malattie infettive all’Università Milano Bicocca e primario nell’Ospedale San Gerardo di Monza, uno dei pochi centri italiani ad avvalersi di un ambulatorio dedicato ad alta specializzazione.

Paolo Bonfanti

Paolo Bonfanti - per gentile concessione di Paolo Bonfanti

Chi li frequenta, questi centri, può contare su un approccio multidisciplinare: «Oltre all’infettivologo – evidenzia Bonfanti –, il paziente viene valutato dallo pneumologo, dal cardiologo, da uno psicologo e, nei casi di persone anziane, da un geriatra». La presenza dello psicologo - e, da poco, anche del neurologo -, sta diventando centrale. Perché più si indaga sul long Covid più vengono fuori sorprese. «Possiamo dividere in quattro gruppi le persone che seguiamo – osserva Bonfanti – ma se per i primi tre le conseguenze della malattia erano per certi versi attese, il quarto ci preoccupa». Ma andiamo con ordine: nel primo gruppo rientra «chi ha difficoltà respiratorie; ci può stare, perché il Covid è fondamentalmente una polmonite, qualche volta grave, e quindi un incompleto ritorno alle capacità respiratorie originali è nell’ordine delle cose, con differenze importanti tra pazienti che sono passati dalla rianimazione o no». Nel secondo, ci sono quelle persone che hanno difficoltà a tornare a svolgere le consuete attività quotidiane, compreso il lavoro, perché hanno deficit di forze, una stanchezza cronica. «Un disturbo già presente in altre malattie infettive – ammette l’infettivologo –, anche se dopo il Covid si nota più fatica a compiere i normali atti quotidiani della vita. Si tratta del 30-40% dei pazienti che hanno avuto forme gravi». Un altro gruppo è caratterizzato da persone che hanno bisogno di un supporto psicologico perché lamentano «un’alterazione del normale ritmo sonno-veglia, o alterazioni dell’umore.

C’è poi un altro gruppo, il quarto, che presenta una sintomatologia «che nessuno si aspettava di rilevare con una elevata frequenza, caratterizzata da difficoltà neurocognitive. Sono persone – spiega l’esperto – con difetti di concentrazione, e con perdita parziale della memoria. Stiamo studiando, non tutto è chiaro: può trattarsi di un disturbo transitorio, di un percorso verso un lento ritorno alla normalità, che richiede più mesi, o rappresentare un danno all’esordio, come quello che si osserva nelle persone con altre patologie che a volte evolvono fino a forme conclamate di deficit neurocognitivo. Ci sono ricerche che mostrano, in alcuni pazienti che hanno avuto il Covid, danni cerebrali rilevanti».

Come detto, per tutto questo ventaglio di sintomi non ci sono terapie ad hoc «ma abbiamo percorsi riabilitativi respiratori e neuropsicologici», aggiunge il primario. L’altro capitolo che interroga i camici bianchi investe i fattori di rischio: chi è più esposto? Età e gravità della malattia sono indicative, però c’è tutto un mondo ancora da indagare che riguarda i guariti non ricoverati interessati, oggi, da uno o più disturbi. Sta meglio chi ha contratto la malattia dopo la vaccinazione? E che differenza c’è tra chi ha incontrato sulla sua strada la variante Delta rispetto a chi è incappato in Omicron? E infine, i bambini paucisintomatici nei quali è però comparsa la temibile sindrome infiammatoria multisistemica, che si sviluppa dalle due alle sei settimane dopo il contagio, per quanto tempo andranno monitorati?

Di fronte alla necessità di risposte certe, l’Istituto superiore di sanità ha avviato un lavoro poderoso, in sinergia con istituzioni scientifiche internazionali, per arrivare a linee guida condivise e per coordinare una rete di ambulatori specializzati in tutto il Paese. «In definitiva – conclude Bonfanti –, il long Covid appare discretamente diffuso, ha una gravità variabile ma non per questo dobbiamo correre tutti dal medico. Occorre basarci sui sintomi. Se persistono per più di 3 mesi è bene parlarne con il medico di base e avviare un percorso di screening».

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