sabato 22 maggio 2021
In un libro appena pubblicato un episodio mai raccontato: Falcone volle collaborare all'inchiesta sulla morte del "giudice ragazzino", oggi beato
La strage di Capaci, il 23 maggio 1992

La strage di Capaci, il 23 maggio 1992 - Archivio Ansa

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Domani è il 29mo anniversario della strage di Capaci del 23 maggio 1992, nella quale morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani. Le commemorazioni organizzate dalla Polizia di Stato si svolgeranno a Palermo alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del capo della Polizia, il prefetto Lamberto Giannini, a partire dalle 10.15 con la deposizione di una corona d'alloro nell'Ufficio scorte della caserma Lungaro, presso la lapide che ricorda i Caduti degli attentati di Capaci e via D'Amelio. Subito dopo avrà luogo la cerimonia di disvelamento della teca contenente i resti della Fiat Croma, ormai conosciuta come "Quarto Savona 15", dal nome della sigla radio attribuita agli uomini della scorta di Giovanni Falcone.

Quel 23 maggio 1992 fu l’inizio della stagione stragista di “Cosa nostra”. Primo da colpire il magistrato che assieme al collega e amico Paolo Borsellino, con “maxiprocesso” aveva individuato e fatto condannare i vertici della mafia siciliana. Un magistrato preparatissimo, che aveva ben capito la complessità e la vastità di “cosa nostra”. E come per contrastarla servisse un lavoro di squadra fatto in modo molto accurato. Lo dimostra un episodio inedito, relativo all’omicidio del giudice Rosario Livatino il 21 settembre 1990. Il giovane magistrato conosceva bene Falcone e Borsellino, avevano più volte collaborato, scambiandosi documenti e analisi. Così quel giorno entrambi si precipitarono ad Agrigento e Falcone addirittura collaborò, con preziosissimi consigli, all’interrogatorio di Pietro Nava, il coraggioso e fondamentale testimone dell’agguato a Livatino. Lo racconta Sebastiano Mignemi, allora neanche trentenne pm di Caltanissetta che insieme al collega Ottavio Sferlazza fu titolare della prima inchiesta sull’omicidio di Livatino. Oggi è presidente del Tribunale del riesame di Catania, e ha raccontato per la prima volta quell’importante episodio riportato nel libro “Rosario Livatino. Il giudice giusto” (Edizioni San Paolo) di Antonio Maria Mira, da pochi giorni in libreria.

“Un’altra cosa che mi colpì moltissimo fu la discrezione con la quale intervennero da Palermo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In particolare ricordo bene come Falcone, che nel 1990 era già molto noto, si approcciò a me giovanissimo magistrato per capire». E Mignemi racconta i preziosi consigli di Falcone. “Aveva un grande fiuto investigativo e capì che quella testimonianza sarebbe stata il perno di tutti i processi che sarebbero svolti. E mi disse una cosa fondamentale. Di stare attento a ogni minimo particolare del racconto. Quando il testimone diceva la parola “pistola” non mi doveva bastare, ma dovevo chiedere come fosse, argentata o nera, un revolver. E vedendomi perplesso mi spiegò: “Può darsi che domani un giornale scriva pistola, ma se lui ha detto pistola nera, o era un fucile a canne mozzate, non potranno averlo letto da nessuna parte. Hai capito? Più si è meticolosi in alcuni aspetti nell’immediatezza e si ricevono informazioni e più avremo risultati processuali””.

Il giovane magistrato capì che era “una lezione a livello investigativo fondamentale. Entrava molto nel dettaglio. Capiva benissimo che un’indicazione generica che poi può essere ripresa dopo qualche giorno da qualche articolo, se viene poi raccontata in dibattimento da una fonte probatoria, ha la valenza 131 che ha, se invece quell’indicazione è talmente specifica che non può essere stata letta da nessuna parte, avrà molta più forza. Questa lezione mi rimase impressa moltissimo”.

Ma perché Falcone era interessato all’omicidio? “Perché evidentemente nell’immediatezza si poteva anche pensare che era un gesto di mafia più legato a vicende palermitane, un segno di potenza militare in tutto il territorio della Sicilia occidentale. Inoltre lo conosceva bene, avevano collaborato. Giovanni Falcone capiva che se si era potuto commettere un omicidio di un magistrato in quel modo, in quel territorio, evidentemente ci doveva essere stato perlomeno il benestare del gotha mafioso della zona che lui già allora sapeva essere molto vicino ai vertici di “cosa nostra””.

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