lunedì 17 marzo 2014
Dal ghetto dello spaccio milanese è sorto un nuovo quatiere: una rinascita che è diventata cammino educativo Claudio Monici
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L'inverno del dolore, dei sogni spentisi nel buio di scantinati e di corridoi scalcinati, con un ago piantato nel braccio, distesi su una panchina di giardinetti pubblici ridotti in pessime condizioni, qui se ne è andato da un bel po’ di tempo. La pesante stagione della droga, che si è portata via tanti piccoli eroi negativi della periferia, della pelle metropolitana, bruciati dall’eroina, inchiodati dall’Aids, ora andrebbe ricordata solo col rispetto e con la preghiera che accompagni quel dolore che, certamente, ancora palpita nel cuore e nel ricordo di familiari o amici, per delle vite che non ci sono più. Diciotto anni sono trascorsi dall’ultima grande incursione di duecento poliziotti che, come commando in azione nella jungla, e con gli elicotteri in cielo a ronzare come nel film “Apocalypse now”, si disperdevano in ogni pertugio e casa di via Uccelli di Nemi, Serrati, Rilke e Parea, per scardinare una diffusa rete di spaccio, gestita più da nuclei familiari, che da clan malavitosi organizzati. Un quartiere ghetto, macilento e squalificato, ieri. Oggi, a tutti gli effetti, diventato maggiorenne. «Io questa gente la strabenedico e con loro tutti quelli che hanno lavorato per realizzare il miracolo di Ponte Lambro. Un quartiere rigenerato. Forse sarà perché gioco in casa, ma è questa stessa gente a ricordarmi, ogni giorno, che il nostro quadrilatero è risorto. Certo c’è ancora qualcosa da fare, come sistemare la parte decadente che si affaccia sul Lambro, in via degli Umiliati. Io, oggi, sono felice, dopo il tempo dello squallore totale». È la gioia semplice e sincera dell’innocenza, quella che si traduce ascoltando le parole di don Agostino Brambilla, da ventidue anni parroco della chiesa Sacro Cuore in Ponte Lambro.

Un ponte unisce, ma un ponte può anche dividere. Ed è quello che è successo qui per molto tempo, forse addirittura da quando il borgo è sorto, attorno al 1904, anche per dare “asilo” ai lavandai che qui avevano l’acqua per lavare e prati per stendere i panni ad asciugare, perché a Milano vigeva il divieto di stendere vestiti e lenzuola nei luoghi pubblici. La città è sempre rimasta dall’altra parte di un sottopasso della tangenziale. Fino a quando non è stato immaginato quel progetto chiamato “contratto di quartiere” che ha reso possibile il miracolo di cui parla il parroco. «Dovevano essere cinque le zone individuate attorno a tutta la grande città, da rinnovare integralmente. Ponte Lambro è stato l’unico progetto riuscito e portato a termine completamente», aggiunge don Agostino, accompagnando le sue parole con un sorriso semplice. «Salve Pino, come sta oggi? In alto i cuori». «Buon giorno Maria, tutto bene a casa? Una benedizione particolare». «Antonio, hai fatto i compiti?». «Ciao don, oggi sei di libera uscita?». «Ehi, don, quando posso venirla a trovare in canonica, le devo parlare?». «Don, ha saputo di quella vicenda?». «Ciao don, sto andando a dire una preghiera a san Giuseppe». Milano è là davanti, mentre alla spalle scorre il fiume Lambro, don Agostino ci vuole accompagnare a piedi per le vie del quartiere, ogni passo è un incontro, e ogni incontro è una parola di benedizione, di sincero saluto. Questa gente è la vera pelle della metropoli. «Queste sono le famose case bianche. Conosciute come le “quattro stecche” di via Uccelli di Nemi. Era qui il fortino dello spaccio – racconta don Agostino –. Qui non si entrava a piedi. È bastato applicare una riflessione molto semplice. Il luogo era chiuso, un ghetto, dove l’autobus finiva la sua corsa. È bastato aprire il passaggio alle persone e ai veicoli, rendendo più evidente la presenza della città. Ecco dove abbiamo trovato la carta vincente». Chi non ha abitato a Ponte Lambro difficilmente può immaginarsi il disastro che era. «Queste erano case occupate. Le motociclette scorrazzavano a tutto spiano sotto i portici, c’erano le vedette dello spaccio. Tutto era sporco e tutto era rotto. Anche le scuole avevano sfasciato. Provate a immaginare cosa non era quel disastro delle “stecche”: oltre ai problemi della droga, per ogni scala c’erano almeno cinquanta bambini, moltiplicatele per trenta. Una bomba di energia. La scuola media “Primo Levi”, oggi trasformata in aula bunker del Tribunale di Milano, era un campo di battaglia». Ma allora che cosa ha cambiato in meglio questo pezzo di Milano, dove nel marzo del 1848, il vecchio feldmaresciallo austriaco Josef Radetzky, in fuga dalle Cinque giornate di Milano, attraversò il ponte sul Lambro, e si diresse verso il quadrilatero difensivo di Verona? «Vede, una cosa altrettanto semplice è accaduta: le persone sono state coinvolte nei progetti. A loro è stato chiesto come si immaginavano il quartiere, cosa desideravano. La gente è stata animata, anche quei soggetti che in un modo o nell’altro erano rimasti invischiati da una vita non certo dedita all’onestà. Uomini saggi hanno voluto invitare anche questi personaggi. E questo è potuto avvenire nonostante le tante reciproche diffidenze. Ma il messaggio diffuso era molto semplice e pulito: tu diventi bello, se lo vuoi. E così anche quella gente, con qualche peccato da ripulire, ha capito che doveva fare e stare con gli altri. E poi ci sono stati degli operatori, e dei grandi architetti, che non hanno avuto paura di rischiare e nemmeno hanno avuto un minuto di dubbio». Le case bianche sono state tinteggiate a nuovo, un bel color ocra. Domina più calore in queste strade, e i sorrisi si spendono con più piacere, mentre il cantiere sta ultimando il progetto per la realizzazione di un nucleo di mini appartamenti per anziani. I giardini pubblici di via Serrati dove le mamme di Ponte Lambro non mandavano i loro bambini a giocare, «perché c’erano i tossici», «perché tutto sembrava perso», sono colorati di primavera. A pochi passi c’è il Centro giovani, da una finestra sbuca una voce che dice: «Stare insieme, si può». Dal vicino Centro per anziani comunale, esce una melodia sudamericana e nella grande sala ci sono una ventina di coppie che ballano. «Sai don Agostino, stare in mezzo alla gente aiuta al dialogo reciproco: ci si conosce meglio e si sta bene», saluta un signore di mezza età, intanto che calza scarpe adatte alla danza. Un quartiere diventato laboratorio di un cammino educativo. Ponte Lambro è un piccolo paese. Quattromila abitanti millecento famiglie, il trenta per cento sono gli stranieri. La periferia è la vera pelle di una metropoli. È nella zona d’ombra dei confini, dove si accalcano, per poi riprodursi, quei fenomeni che si diffonderanno nella città, come olio che si espande. La vergogna, l’obbrobrio, lo scandalo italiano dell’ennesimo ecomostro, uno scheletro di cemento armato, il prodotto di un progetto non concluso, e tanti soldi sperperati, un grande hotel per i Mondiali di calcio del 1990, fino a un paio d’anni fa si ergeva proprio qui vicino a Ponte Lambro. Quando è stato finalmente abbattuto, alla gente è stato sottoposto un questionario: come volete il vostro nuovo parco pubblico? «Coinvolgere le persone, per riqualificare la città. Basta un progetto, una idea, un sostegno. Così si fa nascere la bellezza. Sfruttamento significa solo bruttura e il brutto cresce anche nel cuore degli individui. Come vorrei che questa fascia in riva al Lambro si trasformasse in un grande capolavoro di verde pubblico che abbracci Milano. Pensarlo è già volerlo, ma ci vuole qualcuno. Se siamo riusciti a fare il miracolo delle Case bianche, forse verrà il giorno in cui l’opera sarà completata».

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