La sede del ministero della Cultura - ANSA
Nei rari momenti in cui la politica si batte il petto, è solita indicare come modello educativo universale e trasversale la famosa fotografia di Aldo Moro in spiaggia in giacca a cravatta, esempio plastico di quella indivisibilità tra pubblico e privato che riguarderebbe le persone che ricoprono incarichi istituzionali. Evidentemente una cosa è indicare un modello, altro è metterlo in pratica.
Sia chiaro, sul filo sottile pubblico-privato che ha fatto cascare fragorosamente il ministro Sangiuliano sono caduti, prima di lui, molti altri rappresentanti delle istituzioni. E la confusione - per usare un eufemismo - tra i due piani è diffusa a destra, a sinistra e al centro senza distinzioni.
Tuttavia, c’è qualcosa nella linea difensiva approntata dalla presidente del Consiglio che non convince. Secondo l’ultima ricostruzione di Sangiuliano nella lunga e anomala intervista serale al Tg1, è stata la premier ad aver rigettato le dimissioni presentate dal ministro della Cultura. Quindi è proprio Meloni ad intestarsi una posizione che sarebbe sbagliato accettare acriticamente. È quel dire ai cittadini, sintetizzando: se non ci sono rilievi penali, non ci sono conseguenze né politiche né istituzionali. Se i comportamenti sono oggettivamente e palesemente sbagliati, ma non finiscono in un fascicolo di una procura, se ne esce con una ramanzina e delle «scuse», tanto il tempo laverà la memoria.
Forse la premier non ha voluto esprimere, con atti politici drastici, un giudizio morale su una persona vicina. O forse semplicemente non ha voluto prestare il fianco alle opposizioni. Ma il punto non è (era) né squisitamente morale né di tattica politica. Il punto è (e resta) un altro: se la funzione pubblica esercitata ai massimi livelli ha ancora a che fare con un autentico senso di responsabilità.
Perciò la scelta della premier di non accettare le dimissioni di Sangiuliano è davvero difficile da spiegare. "Colpa" di quel “senso di gruppo” che caratterizza l’esperienza di governo di FdI? Dell'idea perenne di doversi difendere da forze esterne, anche se in questa circostanza il ministro ha fatto tutto da solo? Certo qualsiasi sia il motivo che ha dettato la decisione di Meloni, il principio che è stato sacrificato è più importante: il principio iscritto nella Costituzione per cui «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». E proprio perché è vero che tanti prima di Sangiuliano sono caduti negli stessi errori, la premier aveva l’occasione, ma l’ha sprecata, di ribadire il senso dell’articolo 54 della Carta.
Vero è che la foto di Moro, rivista con le lenti del presente, appare molto esigente. Ma qui si è ormai caduti sull’estremo opposto: la pretesa, quando ci si trova alle corde e quindi fa comodo, di sdoppiare totalmente privato e pubblico, personale e politico. È l’applicazione in politica e nelle istituzioni del principio relativistico, che pure questo governo combatte con molti validi argomenti, quando applicato però ad altri aspetti della vita sociale e comunitaria.
Quanto invece all'intervista serale di Sangiuliano al Tg1, testata di cui tra l'altro è stato vicedirettore, difficile oggettivamente non considerarla un momento di televisione e di informazione di discutibile gusto. Un ministro della Repubblica che "confessa" le sue vicissitudine affettive lascia spaesati. Ma alla fine lo spaesamento più forte è proprio in quell'elemento nuovo messo in piazza: le dimissioni erano sul tavolo, ma non sono state accettate dalla premier. C'era, ma non è stata afferrata, la possibilità di provare a ristabilire il sentiero della serietà in una politica sempre più delegittimata dalle gesta dei suoi protagonisti.