mercoledì 23 maggio 2018
Io non gradito a certo establishment. Il Colle teme le posizioni euroscettiche e gli attacchi a Merkel. Ma le sue critiche hanno un fondamento
Paolo Savona: «Contro di me chi vuole Ue debole»
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Chi ha paura di Paolo Savona? Se, come accredita più di qualcuno, la vera ragione della tenzone in corso sul futuro governo, più che il premier indicato Conte, riguarda il possibile ministro dell’Economia, vale la pena di capire qualcosa in più di questo 81enne cagliaritano, uno dei pupilli di Guido Carli in Banca d’Italia e già ministro (dell’Industria) nel governo Ciampi, oggi portato avanti soprattutto dalla Lega di Salvini. «Resto in silenzio, in attesa delle scelte. A non volermi, semmai, è l’establishment che mi accusa di dare copertura al populismo, frutto invece dei loro comportamenti», sono le uniche parole dette ieri, da noi contattato.

In questi giorni, con una buona dose di approssimazione, è stato presentato come un "anti-euro". Quasi un "no-euro", addirittura. Lui dissente profondamente: «Passo per uno dei pochi economisti istituzionali anti-europeisti, ma non è così – disse tempo fa –. Io sarei per l’Europa unita, per questo non posso che dire peste e corna di quello che vedo oggi a Bruxelles. Le difficoltà dell’Ue sono colpa delle élite che la guidano: dicono di interessarsi del popolo, ma si occupano solo di loro stesse». Parole che, a rileggerle, suonano come un perfetto manifesto per un governo giallo-verde. Ma che rispecchiano comunque studi e pensiero di questo economista che incarna anche una sorta di potenziale rivincita - qualora alla fine approdasse davvero sulla scrivania di Quintino Sella, al Tesoro - degli "euroscettici" di Bankitalia (lui, come il già governatore Antonio Fazio, compagni alla fucina del Servizio studi nei primi anni Settanta) rispetto ai protagonisti ufficiali della storia dell’euro, Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi.

Savona non avrebbe gradimento pieno al Quirinale per aver teorizzato da anni una possibile uscita "ragionata" dall’euro e, soprattutto, per un eccesso di critiche sferrate a Draghi, nonché alla cancelliera tedesca Angela Merkel e all’ex premier Mario Monti. Sulla Germania, ieri La Stampa ha citato sue eloquenti parole, tratte dall’ultimo libro "Come un incubo e come un sogno": Berlino «non ha cambiato la visione del suo ruolo in Europa dopo la fine del nazismo, pur avendo abbandonato l’idea di imporla militarmente. Possibile che non impariamo mai (come Italia, ndr) dagli errori?». Un accostamento, quello al Reich, che avrà fatto venire i brividi a più di qualcuno, ma che economicamente ha una sua validità, per spiegare a esempio l’"ossessione" tedesca per l’inflazione a scapito anche dei fondamentali di una crescita virtuosa dell’economia. È questa, in fondo, una delle ragioni dello scontro mai risolto che mina nel profondo la costruzione europea.

Quella di Savona è una posizione culturalmente "forte", non c’è dubbio. Senza trascurare il suo cursus honorum coltivato negli anni, a partire dal duro "svezzamento" a via Nazionale negli anni dello choc petrolifero (dove contribuì a elaborare risposte tecnicamente innovative per l’epoca, dalle modifiche alla riserva obbligatoria ai vincoli di portafoglio per le banche e al doppio mercato dei cambi, uno commerciale e uno finanziario), che ne fa un uomo di Stato capace comunque di mediazioni politiche. D’altronde, le sue tesi sull’euro sono note (e da diversi apprezzate) da anni. Le critiche di Savona si sono appuntate soprattutto sui parametri di Maastricht, fissati nel 1992, e sul rivedere la governance dell’euro e sull’esigenza che il governo e Bankitalia tengano comunque pronto un "piano B" per una eventuale uscita dall’euro, affermò anche in un’intervista ad Avvenire a marzo 2016. Temi riassunti già nel 1996 nel volume L’Europa dai piedi d’argilla e ripresi in un libretto appena uscito col giornale economico Mf, Quando a Carli tremò la mano, edito per i 25 anni della sua morte. Riferimento a un episodio raccontato da Paolo Panerai, direttore-editore di Mf, su un incontro avuto con Carli di ritorno da Maastricht: «Quando ho firmato il Trattato la mano mi tremava. Sapevo che era necessario far entrare l’Italia nel vertice dell’Europa, ma sapevo che l’Italia non è pronta». Le stesse, forti esitazioni avute da Fazio il 24 marzo 1997, la notte in cui si decise chi doveva entrare nell’euro. Il libretto ospita un’analisi di Savona: «I valori scelti come parametri... – scrive – sono privi di qualsiasi spiegazione logica». Lo stesso tetto del 3% di deficit appare «scelta di una rozzezza tragica nelle sue conseguenze». La tesi è semplice, tutto sommato: i parametri sono troppo rigidi, mentre l’economia ha bisogno di una sua flessibilità per meglio dispiegarsi. Sono ragionamenti che hanno illustri precedenti. L’opuscolo riporta un illuminante scritto dell’ex governatore Paolo Baffi, datato giugno 1989: «La storia monetaria d’Europa ci rivela che, ogni qual volta la parità di cambio è stata eretta a feticcio o imposta senza riguardo alle condizioni dell’economia, le conseguenze sono state nefaste».

Ora resta da capire se sarà davvero lui a confrontarsi con quell’Europa che vorrebbe riformare. E a dargli man forte potrebbe ritrovarsi Enzo Moavero Milanesi, "contattato" per la casella Affari Europei, già ministro con Monti e Letta, ma accreditato come uno dei maggiori conoscitori dei meccanismi europei. Conoscere per cambiare, appunto.

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