martedì 8 settembre 2020
Accuse per i respingimenti illeciti guidati a distanza. «In tutte le strutture di detenzione, le condizioni sono state descritte come “orrende” e “crudeli". Abusi anche sui bambini»
Una motovedetta libica di Zawyah "salva" il motore di un barcone nel giugno del 2019

Una motovedetta libica di Zawyah "salva" il motore di un barcone nel giugno del 2019

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Da quasi due anni le Nazioni Unite non aggiornavano la posizione ufficiale sulla Libia quale Paese «non sicuro» per lo sbarco di migranti e profughi. Un lasso di tempo usato dalle diplomazie Ue per sostenere che dal 2018 a oggi, nonostante la guerra civile, per i migranti qualche passo avanti è stato registrato. Un pretesto per continuare a cooperare nella cattura in mare e nel respingimento. Ma ieri con un documento ufficiale di 17 pagine l’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha spazzato via ogni alibi: «L’Unhcr–Acnur non ritiene che la Libia soddisfi i criteri per essere designata come luogo sicuro ai fini dello sbarco dopo il salvataggio in mare».

Non è un parere negoziabile. Ogni collaborazione nei respingimenti, infatti, costituisce una violazione del Diritto internazionale. Pochi giorni fa era stata Stephanie Williams, capo pro–tempore della missione Onu a Tripoli, a ribadire con una lettera al Consiglio di sicurezza che «la Libia non può essere considerata un porto sicuro per lo sbarco». Nelle prigioni ufficiali si trovano circa 2.400 stranieri «regolarmente sottoposti – ha aggiunto Williams – a gravi violazioni dei diritti umani».

Nella “Posizione” dell’Unhcr è sintetizzato l’orrore che non risparmia neanche i più piccoli: «In tutte le strutture di detenzione, le condizioni non soddisfano gli standard internazionali e sono state descritte come “orrende” e “crudeli, disumane e degradanti”. Sono stati segnalati decessi durante la detenzione a causa di violenza, suicidio e malattia. Richiedenti asilo, rifugiati e migranti, compresi i bambini, sia maschi che femmine, sono regolarmente sottoposti a tortura e altre forme di maltrattamento, inclusi stupri e altri forme di violenza sessuale».

I governi italiani degli ultimi tre anni sono chiamati in causa direttamente. Se è vero che «dal 2017 l’Italia e l’Ue forniscono assistenza alla Guardia costiera libica (Lcg) per aumentare la sua capacità di svolgere operazioni di ricerca e soccorso e prevenire partenze irregolari», va tenuto in conto che «la Lcg è stata coinvolta in violazioni dei diritti umani contro richiedenti asilo, rifugiati e migranti, compreso l’uso di armi da fuoco ed è anche accusata di collusione con le reti di trafficanti».

Il rischio di nuove pesanti condanne per Italia e Malta davanti alle corti internazionali, da quella per i Diritti dell’Uomo a Strasburgo fino alla Corte penale dell’Aia, si fa dunque concreto. E’ oramai accertato, infatti, che le motovedette di Tripoli intervengono nella stragrande maggioranza dei casi dopo che i barconi sono stati avvistati da aerei delle forze armate europee e dell’agenzia Ue Frontex. Un coordinamento a distanza, già rivelato un anno fa con documenti audio, che l’Onu di fatto vieta con parole chiare: «Laddove è probabile che il coordinamento o il coinvolgimento di uno Stato in un’operazione di ricerca e soccorso (Sar)» determini il respingimento, il Paese interessato deve attenersi agli obblighi sottoscritti, «ai sensi del diritto internazionale». E perché non ci siano operazioni di giocoleria interpretativa, ai governi è chiesto di «astenersi dal far tornare in Libia le persone soccorse in mare e assicurare lo sbarco tempestivo in un luogo sicuro». L’esatto contrario di quanto sta accadendo.

In assenza di una inversione di marcia l’Italia potrebbe affrontare una pioggia di ricorsi giudiziari da parte di richiedenti asilo e profughi catturati durante le traversate e riportati nell’inferno della prigionia. Proprio come avvenuto con gli eritrei respinti illegalmente nel 2009 e che pochi giorni fa sono arrivati a Roma grazie a una sentenza che ha condannato il nostro Paese. Un precedente che viene ora rafforzato dalla posizione ufficiale delle Nazioni Unite.

Dimostrare che i guardacoste libici siano intervenuti su mandato di Roma o La Valletta da ieri è diventato più difficile. Le autorità italiane hanno ordinato il divieto di volo a Moonbird, l'aereo di Sea Watch. In questi anni la piccola flotta di sorveglianza civile aveva permesso di documentare le operazioni della cosiddetta guardia costiera libica, come quando con immagini ottenute da Avvenire nel 2019 fu possibile riconoscere l’intervento di una delle motovedette al comando del guardacoste–trafficante Bija, i cui uomini erano impegnati nel recuperare il motore di uno dei barconi messi in mare da scafisti in affari con la milizia dello stesso Bija. Altre volte i piloti volontari avevano permesso di scoprire conoscere e raccontare in diretta proprio quei respingimenti che l’Onu condanna.

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