mercoledì 3 febbraio 2021
La criminalità si ricompatta nell'Agrigentino facendo riferimento sempre agli stessi personaggi che riescono a comunicare dal carcere, a ottenere la semilibertà o i domiciliari
Un fermo immagine tratto da un video dei carabinieri: capimafia e boss della Stidda sono stati coinvolti nell’inchiesta della Dda di Palermo

Un fermo immagine tratto da un video dei carabinieri: capimafia e boss della Stidda sono stati coinvolti nell’inchiesta della Dda di Palermo - Ansa

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Dall’operazione "Xydi", che vede indagati a titolo diverso 23 persone per associazione di stampo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa e altro ancora, emerge una Cosa nostra, con a capo il latitante Matteo Messina Denaro, che ha sancito con la Stidda un accordo di pace tuttora vigente. Nel mandamento di Canicattì (Agrigento), in particolare, la Stidda è tornata a riorganizzarsi intorno a due ergastolani riusciti a ottenere la semilibertà: Antonio Gallea, mandante dell’assassinio del giovane magistrato Rosario Livatino, trucidato il 21 settembre del 1990 che sarà proclamato beato da papa Francesco, ammesso alla semilibertà dal Tribunale di sorveglianza di Napoli il 21 gennaio del 2015 perché ha mostrato la volontà di collaborare con la giustizia, e Santo Rinallo, dopo 26 anni di reclusione ammesso il 6 ottobre 2017 al beneficio del regime della semilibertà dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari ed autorizzato a svolgere attività lavorativa all’esterno della struttura carceraria.


Alle volte ritornano. Ma in tema di mafia ritornano sempre. Uomini e metodi. L’operazione Xydi – in greco il vino che diventa aceto, quasi a evocare la malapianta criminale – da questo punto di vista è esemplare.

Così a quattro mesi dal trentennale dell’omicidio di Rosario Livatino, e ad appena un mese dalla sua beatificazione tornano sulla scena personaggi legati a quella drammatica vicenda. «La provincia di Agrigento e la sua mafia, pur poco considerati, sono sempre stati centrali nelle dinamiche mafiose», ci spiega un importante investigatore. Così, malgrado i colpi ricevuti, i clan sono rimasti vivi e attivi, facendo riferimento agli stessi personaggi.

Durante il processo per l’omicidio Livatino il collaboratore di giustizia Giuseppe Croce Benvenuto, condannato poi a 13 anni, raccontò che fu Gianmarco Avarello, uno dei cinque killer del giudice, a sostenere la necessità di eliminare Livatino perché era stato nel collegio giudicante ed estensore della motivazione della sentenza che il 17 aprile 1990 aveva condannato a quattro anni per porto e detenzione illegali di una pistola con matricola abrasa e di materiale esplodente, i mafiosi Giovanni Catalfo, Antonio Gallea e Santo Rinallo. Una condanna che i mafiosi ritenevano esagerata.

Gallea e Rinallo sono tra gli arrestati di ieri come attuali vertici del mandamento di Canicattì della Stidda, che «persistendo la situazione di pacificazione risalente agli anni ’90, opera in rapporti di sinergia criminale con Cosa nostra sia per la risoluzione di problematiche che per la spartizione delle attività criminali».

E infatti assieme a loro è stato arrestato Calogero "Lillo" Di Caro, capo mandamento di Cosa nostra a Canicattì. Anche questo è un cognome che riporta indietro di trenta anni, è infatti nipote di Giuseppe Di Caro, il capo della "famiglia" negli anni ’90, che abitava nello stesso palazzo di Livatino: il giudice coi genitori al pian terreno, il mafioso al primo piano. E proprio il boss è citato nel decreto che riconosce il martirio di Livatino. «Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile del Servo di Dio, lo definiva con spregio santocchio per la sua frequentazione della Chiesa».

Il nipote non ha tradito lo zio. Più volte in carcere, lo scorso 11 dicembre è stato condannato a 22 anni, ma avendo 75 anni li stava scontando agli arresti domiciliari, da dove continuava gli "affari". Il difensore è l’avvocato Angela Porcello, anche lei ora finita in manette, accusata di gravissimi reati. Non l’unica inquietante complicità, a conferma degli appoggi che i mafiosi riescono ad avere anche in carcere e di come riescano a comunicare e godere di importanti benefici. Il legale, che ha lo studio a Canicattì proprio in via Rosario Livatino, si era specializzata in iniziative a favore degli "stiddari" condannati per l’omicidio del giudice.

Così il 15 settembre, pochi giorni prima del trentesimo anniversario, era riuscita a far ottenere un permesso premio a Giuseppe Montanti, condannato all’argastolo come uno dei mandanti. Non era invece riuscita pochi giorni fa ad ottenere i domiciliari per motivi di salute per Salvatore Parla, anche lui all’ergastolo come mandante. Un avvocato al servizio mafiosi e stiddari, a conferma che, malgrado, tensioni e incomprensioni, la collaborazione va avanti. Siglata 30 anni fa dall’omicidio Livatino, che oltre a colpire la Stidda aveva capito e indagato gli affari di Cosa nostra.

Terra delicata e importante l’Agrigentino, oggi come allora, e Canicattì in particolare. Non a caso se ne occuparono Falcone e Borsellino che, malgrado non avessero competenza territoriale, si informarono su quel grave omicidio, anche perché Livatino aveva scoperto, e fatto avere ai due colleghi, documenti sui rapporti con la mafia nordamericana. Rapporti che ritornano nell’operazione di ieri.

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