venerdì 22 novembre 2019
I profughi muoiono ancora nei lager libici delle milizie. E i loro diritti vengono calpestati anche nei lager di Stato. Mentre continuano a fare affari i mercanti di uomini
Il massacro dei migranti schiavi, uccisi altri 4 eritrei in fuga dal lager
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I profughi muoiono ancora nei lager libici delle milizie. E i loro diritti vengono sistematicamente calpestati anche nei lager di Stato. Soprattutto in quelli che sfuggono al (ristretto) controllo dell’Onu. Dove si praticano impunemente violenze di ogni tipo e il mercato degli schiavi.

Buca la coltre di silenzio grazie ai social la notizia dell’ennesimo massacro compiuto a Bani Walid, distretto di Misurata, circa 150 chilometri a sud-est di Tripoli, uno dei principali snodi del traffico di migranti in arrivo dal sud della Libia e diretti verso la costa. Domenica sera sono stati uccisi senza pietà a colpi di mitra quattro giovani eritrei mentre cercavano di fuggire da uno dei lager delle milizie dove si compiono efferate atrocità ai danni dei prigionieri per estorcere riscatti ai parenti. Torture già documentate con fotografie lo scorso gennaio.

Conosciamo il nome di una sola delle vittime. Si chiamava Solomun Teklay, era un profugo eritreo di soli 18 anni. Un’altra delle persone uccise dai miliziani era una ragazza 18enne. Altri due feriti sono stati torturati a morte dagli aguzzini per dare l’esempio. Come facevano i nazisti. E otto feriti senza cure sono stati riportati a Bani Walid e rischiano ora di morire.

Le vittime facevano parte di un "lotto" di 66 prigionieri venduti dal trafficante eritreo Abuselam Ferensawi, il "francese", al clan di trafficanti libici guidato dal fantomatico Abdellah. Secondo i rifugiati di Eritrea democratica, che hanno ricevuto disperate e brevi telefonate dal lager e hanno tenuto diversi forum su Facebook con i parenti dei prigionieri, i 66 sventurati – tra cui otto ragazze – sono stati "acquistati" al prezzo di 14mila dollari ciascuno.

Si trovavano in Libia da almeno un anno nel corso del quale sono stati più volte venduti e schiavizzati. I miliziani libici li stanno torturando notte e giorno per ottenere i riscatti. Ma stavolta senza usare foto, i cellulari vengono utilizzati solo per chiamare le famiglie sconvolte alle urla di dolore e dalle minacce. I riscatti devono essere pagati via money transfer ad emissari dei banditi in Egitto e Sudan.

Abuselam è un trafficante eritreo tra i più potenti sulla rotta africana orientale. È il successore di Medhane Mered Yedego, il "generale" protagonista di uno scambio di persona con un falegname eritreo estradato nel 2015 e portato in giudizio a Palermo al suo posto. L’altro ieri la procura ha presentato ricorso contro la sentenza che ha scarcerato il falegname. Ma il vero "generale" sarebbe in Uganda a godersi i profitti del traffico di esseri umani e Abuselam, venduti i 66 connazionali ai libici, lo avrebbe imitato lasciando il Paese nordafricano per raggiungere probabilmente il fratello in Qatar dove avrebbe versato i proventi di anni di lucrosi traffici da Khartoum a Tripoli.

Il lager di Bani Walid, la città della tribù dei Warfalla, resta una ferita aperta, dove le metodologie di tortura sono sperimentate. Ad aprile 2018 la Corte di Assise di Milano condannò all’ergastolo Osman Matammud, somalo 25enne accusato di aver torturato qui per oltre un anno 17 persone che lo hanno riconosciuto e fatto arrestare nel settembre 2017 a Milano. Il carnefice usava le stesse modalità raccontate nei giorni scorsi da vittime e parenti a Eritrea democratica: torture in diretta telefonica alle famiglie. Osman, si legge nella sentenza «usava anche l’acqua per tormentare i prigionieri che venivano appesi a testa in giù con mani e piedi legati. A chi urlava veniva messa la sabbia in bocca».

C’era poi il sistema della plastica sciolta: "consisteva nel bruciare borse di plastica con un accendino e poi lasciare colare la plastica incandescente sulla pelle del malcapitato".

Le donne venivano sistematicamente violentate. Ad Osman sono stati anche attribuiti 13 omicidi di ostaggi i cui pagamenti tardavano. Non è cambiato nulla, il capo è sempre Abdelllah e le regole non prevedono pietà per chi tenta di fuggire o non può pagare.

In un’altra galera pubblica, il centro di detenzione di Zintan, a circa 160 km a sud-ovest della capitale Tripoli, non si muore, ma 140 prigionieri fanno invece sapere via social media di essere allo stremo per la tubercolosi. Solo l’equipe di Medici senza frontiere riesce a raggiungerli anche se non continuamente viste le distanze e i pericoli.

«Fa freddo, i profughi non hanno vestiti né coperte», spiega l’attivista per i diritti umani Giulia Tranchina che li contatta spesso. Dal centro Fitsum, eritreo e detenuto dal 2017, ci scrive su messenger che si dorme in 15 in una stanza, malati e sani, che chi non ha trovato posto dorme in tende all’esterno e che in un mese l’Acnur, con funzionari libici e tunisini, ha censito solo 26 persone. Alcuni detenuti malati di tbc, curati in ospedale e guariti sono stati rinviati dalle autorità nel centro. Dopo il leak del rapporto Ue sulla Libia finito su alcuni giornali di ieri in cui si rivela che Bruxelles sa che i migranti costituiscono un affare redditizio per il governo tripolino e le milizie, l’unica speranza è che i centri di detenzione passino sotto il controllo Onu e vengano evacuati.

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