giovedì 17 dicembre 2015
Chi a vent’anni ha combattuto la guerra dei Balcani, a quaranta è pronto a imbracciare di nuovo il fucile per il Califfato nero. Intanto la Macedonia imita l’Ungheria e allunga il “muro”.
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Alla fine Viktor Orban sta avendo la meglio. La contestata barriera metallica piantata perfino di persona dal premier ungherese, non solo è stata estesa ma adesso viene perfino esportata. Per respingere le ondate di profughi in marcia lungo la rotta balcanica, da giorni anche la Macedonia sta sigillando il confine sud con la Grecia. E per farlo ha ottenuto un regalo da Budapest: tonnellate di filo spinato arrivato direttamente dai depositi magiari ai militari di Skopje.  La diplomazia dei cavalli di frisia non ferma gli jihadisti. E nei Balcani non si sa come fronteggiare un rischio a lungo sottostimato: le centinaia di cittadini con un passaporto di Skopie, Pristina, Belgrado, Tirana, arruolatisi nel Daesh, chi per rabbia e chi per denaro. I numeri, quelli che ossessionano gli uffici dell’antiterrorismo di un intero continente, raccontano una verità indigesta. I “combattenti stranieri” da queste parti sono il problema minore, perché ad essere oramai incontrollabile è il flusso dei “combattenti interni”. Se con i primi parzialmente ci si consola liquidandoli come immigrati ingrati che dall’Europa si recano a combattere nelle trincee del jihad, compreso il rischio che rientrando possano compiere attacchi nelle nostre città; i secondi sono invece cittadini balcanici, dunque europei, che si arruolano nelle formazioni del Califfato. I numeri sono in gran parte noti. E fanno paura. Perciò vengono fatti circolare di malavoglia. Secondo le autorità del Kosovo, che hanno ricevuto nelle settimane scorse un dettagliato e documentato rapporto del Centro studi per la sicurezza di Pristina (Kcss) i casi accertati solo quest’anno sono 232. In gran parte ex combattenti della guerra nella ex Jugoslavia, ancora in età da mortaio. In Macedonia l’ufficio del premier Gjorge Ivanov parla di 69 compatrioti di Alessandro Magno da poco rientrati, mentre almeno 110 sono ancora agli ordini del Daesh e 25 risultano morti in battaglia. La proverbiale ritrosia dell’intelligence macedone fa scommettere che le cifre, quelle vere, vadano riviste al rialzo. «Ci sono – ha osservato ieri il coordinatore dei servizi segreti italiani, Giam- piero Massolo – due criticità: la compresenza di 'combattenti stranieri' tra i flussi ed il fatto che questa rotta fa tappa in Paesi balcanici caratterizzati da un alto tasso di radicalizzazione jihadista». Dopo che un paio dei terroristi di Parigi sono risultati essere tra i migranti che hanno attraversato i Balcani, l’Unione Europea preme per maggiori controlli. «Non funzionerà, è solo “politika”. A che serve chiudere le porte di entrata se non abbiamo modo di sorvegliare chi esce?», ammette a bassa voce l’anziano sergente macedone che si accontenterebbe gli pagassero gli straordinari per il lavoro sporco fatto a Gevgelija e nei paraggi, dove di tanto in tanto i giornalisti vengono allontanati di peso, «per ragioni di sicurezza». In altre parole, per consentire ai nuclei antisommossa di poter eseguire senza testimoni scomodi le usuali e indiscriminate cariche di alleggerimento sui migranti, nell’attesa che il muro macedone sia completato. Da queste parti assoldare un mercenario o servirsi di un contrabbandiere non è mai stato un problema. Chi ai tempi della guerra dei Balcani aveva sventagliato la prima raffica di Khalasnikov a meno di vent’anni, oggi ne ha poco più di quaranta. E se non ha trovato un impiego tra gli irregolari in Ucraina, la Siria è la Mecca degli ex ragazzi dal grilletto facile. In Macedonia un insegnante non arriva a guadagnare 300 euro al mese. In Serbia o nel Kosovo non va molto meglio. Il Califfo assicura agli «stranieri con esperienza» e una famiglia sulle spalle uno stipendio di almeno 500 euro al mese, maggiorato se si è istruttori, oltre alla possibilità di fare carriera e arrotondare con ogni genere di affare in nero: petrolio, oppio, automezzi, elettrodomestici, telefonini, computer e schiavi, preferibilmente donne. Intanto nel ventre molle della rotta balcanica, al confine tra Macedonia e Serbia, laddove i sentieri si perdono nella Valle di Preshevo – geograficamente in Serbia, ma presidiata dalle vedette dei banditi kosovari – accadono fatti su cui le autorità preferiscono soprassedere, magari parlando di cruenti ma non inconsueti scontri tra gang. In uno di questi, però, hanno perso la vita otto poliziotti macedoni e quattordici “criminali” di cui non è mai stata fornita la lista completa dei nomi. È successo il 5 maggio di quest’anno, quando la nuova via terrestre dei profughi non era ancora in prima pagina.  Una strage come quella, con 22 morti in un combattimento durato dall’alba al tramonto nei sobborghi frontalieri di Kumanovo, in Europa non si è mai vista. Al ministero dell’Interno di Skopje qualcuno si lasciò sfuggire una parola mai più pronunciata: terroristi. Non del tutto una falsità. Perché oggi fonti di polizia a Kumanovo confermano che i criminali - originariamente accusati di essere albanesi che istigavano all’odio etnico - erano «implicati in vari traffici, compresi quello di migranti e armi dirette verso Il Medio Oriente». Il nuovo Eldorado della “Balkan jihad”.
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